a cura di Silvia Salucci
Lo scorso 18 giugno, Metro-Polis ha dedicato l’Aperitivo a Tema del mese al fenomeno delle migrazioni. L’incontro, ricco di interventi e molto partecipato, si è tenuto, senza averlo preventivato, nei drammatici giorni della vicenda Aquarius. Con questa intervista al fotografo Marco Panzetti, curata da Silvia Salucci, intendiamo proseguire virtualmente riflessioni e suggestioni emerse in quella serata.
Marco, qual è il tuo sguardo sulla realtà della migrazione? Raccontaci il tuo primo lavoro e come nasce un reportage umanitario.
Il mio primo reportage umanitario nacque dall’indignazione. Ricordo chiaramente quei giorni dell’estate del 2015, quando da Ventimiglia arrivavano in continuazione notizie dalla frontiera francese chiusa al transito dei migranti: respingimenti “a caldo”, deportazioni lampo, migranti accampati sulle rocce. A un certo punto pensai che l’unica cosa che potevo fare era andarci di persona. E così feci; presi la mia macchina fotografica, una tenda e partii in moto per Ventimiglia. Così è nato il mio primo progetto: We are not going back.
Tra agosto e settembre 2016 hai lavorato a bordo dell’Aquarius. Raccontaci quei giorni attraverso alcuni dei tuoi scatti.
Dei miei giorni sull’Aquarius non dimenticherò mai la prima volta che ci avvicinammo a un gommone stracarico di persone. Le condizioni in cui erano, le facce stremate e spaventate, la disperazione e la paura negli occhi. È una esperienza che ti rivolta da capo a piedi. A chi si riempie la bocca parlando di quello che accade nel Mediterraneo senza averlo visto di persona, consiglio vivamente di farla questa esperienza.
E quando sei sceso dalla nave dopo tre settimane di navigazione?
Tornare alla vita normale dopo aver visto questo tipo di realtà non è facile. Ti senti quasi in colpa, troppo privilegiato se paragonato alle persone che hai conosciuto sulla nave per continuare a fare la tua vita di sempre. Ma tant’è, poi la quotidianità riprende il sopravvento, e la vita torna a scorrere. La consapevolezza di essere stato testimone di una grande ingiustizia però rimane, quella nessuno te la può togliere e continuerà a condizionarti nelle tue scelte future.
Marco, vorrei chiederti come secondo te la fotografia può sostenere l’opinione pubblica a capire e conoscere i fenomeni migratori. Credi sia una funzione prioritaria o nel tuo lavoro prevale l’intento artistico?
In ambito documentaristico/fotogiornalistico un’immagine che funziona è quella che invoglia lo spettatore a fermarsi, osservare, e riflettere. E quando questo accade solitamente è perché la foto in questione combina un contenuto informativo rilevante con la qualità estetica. Spero sempre di riuscire a creare delle immagini che facciano quantomeno riflettere o emozionare qualcuno; quando questo accade posso ritenermi soddisfatto.
Ti senti un artista libero di poter esprimere le proprie storie? Raccontacene una.
La libertà di espressione a mio giudizio è sempre relativa. Se lavorassi per un giornale, nella scelta dei temi sarei condizionato dalle scelte editoriali e dalla raccolta pubblicitaria. Come freelance ho molta più libertà in questo senso, ma scarsi mezzi (organizzativi ed economici) per raccontare le storie che vorrei raccontare. È da quando sono sceso dalla nave che penso di recarmi nei paesi di origine dei migranti che ho conosciuto per raccontare quali sono le motivazioni dietro la scelta di migrare, ma come freelance purtroppo in questo momento non ho la possibilità materiale di farlo.
Ti auguriamo che il tuo lavoro possa dar voce a chi non ha più la forza di urlare.