IL LESSICO DELLA SPERANZA

Diversi anni fa, quando ancora Metro-Polis non era nemmeno nelle nostre intenzioni, Rosalba, Beatrice ed io andammo ad assistere a una conferenza del professor Stefano Zamagni presso il Liceo Laura Bassi di Bologna. Fu una lezione ricca di emozioni e feconda di fascino: l’economia letta con le categorie della letteratura, della mitologia e della filosofia. Un’economia viva, reale, presente, capace di abbandonare l’eccessiva matematizzazione dei propri modelli al fine di riconnettersi alla sua identità più profonda, ovvero l’essere una scienza umana, sociale. Un modo, quindi, di presentare l’economia alto, colto, ma allo stesso tempo accessibile a tutte e tutti, alla portata di chi non è esperto. In quel momento maturò in noi la convinzione che Stefano Zamagni avrebbe incrociato ancora le nostre strade, portandoci nuovamente in dono quel bagaglio così dirompente di cultura ed esperienza.
Il 31 marzo 2017, abbiamo avuto finalmente la possibilità di avere il professor Zamagni come ospite di uno degli Aperitivi a Tema di Metro-Polis. L’evento è stato introdotto, come ormai da tradizione, dall’articolo di Beatrice Collina Aperitivo a Tema: nuovi modelli di sviluppo economico: al professor Zamagni, infatti, abbiamo chiesto di parlarci dei motivi per cui l’attuale modello economico fatica a funzionare e di quali potrebbero essere le alternative possibili. È stato un intervento ricco, foriero di suggestioni e spunti di riflessione.

Occorre, prima di entrare nel vivo di queste tematiche, distinguere il concetto di sistema economico da quello di modello economico: il sistema economico in cui siamo immersi è quello capitalistico, il quale, nel corso del tempo, ha dato vita e si è articolato in diversi modelli, che ne sono dunque la concretizzazione storica. Il sistema capitalistico è contraddistinto da tre caratteristiche principali: l’economia di mercato (in cui vige il principio della libertà d’impresa); la proprietà privata dei mezzi di produzione; la funzione prioritaria svolta dal capitale rispetto al lavoro, tale per cui il lavoro non può che configurarsi come una merce al pari delle altre.
Questo sistema economico è andato formandosi nel 1600 ed è passato per 3 diversi modelli. Dapprima il capitalismo agrario (dal 1600 alla seconda metà 1700 circa), in cui il detentore del capitale era il proprietario dei terreni, il quale assumeva i contadini come lavoratori o mezzadri. In seconda istanza si è assistito alla formazione di un capitalismo industriale (da fine 1700 al 1970 circa): a seguito della rivoluzione industriale vi è stata la conseguente affermazione dell’assoluto primato dell’industria. Infine, troviamo il capitalismo finanziario (dal 1970 circa fino ai giorni nostri), reso tale grazie alla globalizzazione e alla terza rivoluzione industriale, ovvero all’ingresso nuove tecnologie nei processi produttivi.
Mentre il capitalismo industriale aveva bisogno di forza lavoro in maniera organica e strutturale, quello finanziario no, o, per lo meno, non nelle stesse quantità e nella stessa costanza: l’attuale modello economico, quindi, quello che ci troviamo ad abitare, non crea occupazione nei rapporti e nella misura in cui lo faceva quello industriale, producendo, così, una serie di ripercussioni notevoli di cui è importante dare conto.

Perché, dunque, è insostenibile questo modello di capitalismo finanziario? Possiamo rintracciare quattro ragioni che stanno alla base di questa condizione.
In primo luogo dobbiamo registrare una insostenibilità ecologico-ambientale: il capitalismo, nelle sue diverse forme storiche ma in particolare in quella industriale e finanziaria, ha considerato la natura come un bene sfruttabile all’infinito, come fosse nella totale disponibilità dell’essere umano. Questo fattore ha provocato gravi ripercussioni in termini di sostenibilità ambientale e di salute pubblica.
In secondo luogo, va annoverata l’insostenibilità sociale del capitalismo finanziario; esso, infatti, tende endogenamente a produrre disuguaglianza, tanto nella distribuzione del reddito quanto nella produzione della ricchezza. Questa disuguaglianza non è che la misura della distanza tra ricchi e poveri e la forbice che si apre tra queste due categorie tende ad aumentare sempre più, anche grazie ai processi posti in essere dalla globalizzazione.
Una terza fondamentale istanza da tenere in considerazione è l’insostenibilità di natura antropologica. Questo modello economico-finanziario tende a esaltare fino all’inverosimile un atteggiamento individualistico che ci è in un certo senso connaturato ma che, paradossalmente, agisce contro la natura umana, contro la nostra peculiarità di essere animali sociali. Per esistere, infatti, abbiamo bisogno di essere riconosciuti ma questo riconoscimento non può che passare attraverso gli altri esseri umani: in essi ci rispecchiamo e grazie ad essi possiamo costruirci una nostra identità personale. Il capitalismo finanziario, tuttavia, spinge alla solitudine esistenziale, moltiplicando i contatti ma diminuendo le reali interazioni.
Infine, tra le ragioni del mal funzionamento di questo modello economico, non possiamo non citare una insostenibilità di tipo politico. In questo contesto, infatti, la democrazia è posta al servizio del mercato, dunque la politica non può che essere serva dell’economia. L’idea che la democrazia si difenda con le elezioni è una falsità: questa è democrazia elettorale ma la vera democrazia è quella deliberativa, quella in cui il cittadino non si limita ad essere elettore ma si assume la responsabilità della decisione, attraverso i propri rappresentanti. Con l’illusione del voto, prosegue Zamagni, si suggerisce l’idea di contare qualcosa ma in realtà non si conta nulla, perché le decisioni vengono prese dai grandi centri di potere economico-finanziario. Questo è un punto di svolta rispetto ai modelli capitalistici precedenti: nel capitalismo agrario e in quello industriale, infatti, il potere del mercato era tenuto in contraltare con la politica, ma, nel momento in cui questa dialettica è venuta a mancare, le agende politiche sono state progressivamente dettate dai detentori di questi centri di potere economico-finanziario.

Se questa è la fotografia del reale, come fare per affrontare un simile modello di sviluppo e provare a mutarne il paradigma? Occorre, secondo Zamagni, considerare le quattro fattispecie di insostenibilità e invertirne la tendenza. Partendo innanzitutto dall’insegnamento e dalla scuola, intesa come luogo d’elezione per la costruzione dell’essere umano e del cittadino. Occorre scardinare le tendenze solipsistiche connaturate a una società nel suo complesso egoistica, che spinge all’atomismo; anche in questo caso l’istituzione scolastica deve farsi luogo primario di formazione ai valori della solidarietà e della relazionalità. Bisogna riappropriarsi di una politica autenticamente democratica, una politica che non faccia della disuguaglianza sociale un dato strutturale rimosso dai broccati della filantropia. Si deve affrontare la questione ambientale con uno sguardo lungo, di prospettiva, avendo il domani come propria stella polare, senza limitarsi al qui e ora. È dunque possibile intervenire: bisogna avere da un lato coraggio e dall’atro tenacia; occorre essere resistenti.
Si è congedato, Zamagni, con le parole del poeta indiano Rabíndranáth Thákhur: «Non piangere quando tramonta il sole, le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle», un invito a non lasciarsi abbattere dalle stagioni più cupe della nostra società perché, nell’oscurità, le stelle ci indicano l’annuncio di una nuova aurora.

Facciamo allora dell’oscurità illuminata da queste stelle un lessico della speranza, capace di guidarci con la forza della resilienza ma con la fecondità della fantasia. Accogliamo questo invito a una rivoluzione divertita, al rinnovamento radicale che comincia dalle piccole comunità, proprio come la nostra. Facciamo di Metro-Polis un avamposto dell’utopia, rendiamo la nostra dimensione di prossimità un paradigma sociale, lavoriamo affinché l’eterogeneità che ci compone divenga impulso politico per il dialogo tra le differenze. Crediamo, dunque, nella speranza, ma non ciecamente: facciamolo forti delle buone pratiche che abbiamo messo in essere, consapevoli che la nostra è una rivoluzione lenta, ma pur sempre una rivoluzione.

Mattia Macchiavelli

 

Fotografie: Filippo Costa
Riprese: Vincenzo Comitogianni
Montaggio video: Laura Comitogianni

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