REDDITO DI BASE: DAL “SOSTEGNO AL BISOGNO” ALLA “LIBERTÀ DAL BISOGNO”. OVVERO, LIBERARE DANIEL BLAKE?

di Roberta Merighi

«La nostra tesi è che, nelle condizioni del XXI secolo, c’è una fondamentale differenza tra un reddito di base incondizionato […] e […] sistemi di reddito minimo condizionato. […] il reddito di base ha effetti molto più radicali. Esso non agisce ai margini della società, ma colpisce al cuore i rapporti di potere. Il suo scopo non è solo quello di alleviare la miseria, ma di liberarcene tutti». (Van Parijs, Vanderborght,* Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, il Mulino 2017)

Se per Lord Beveridge la costituzione di un Welfare State era la strada per rendere fattibile la “libertà” dai mali che affliggevano molta parte della popolazione del Regno Unito del suo tempo, per gli autori sopracitati, la “libertà”, più precisamente la “libertà sostanziale” di tutti, dovrebbe essere la prospettiva normativa di una proposta di reddito di base.

La sua introduzione si rende quanto più impellente «nelle condizioni del XXI secolo», in presenza cioè dei cambiamenti dei modi di produzione e della presenza di un mercato del lavoro globalizzato.

In particolare, se in passato ad ogni cambiamento nei modi e mezzi di produzione si perdevano posti di lavoro nei settori in declino, ma se ne aprivano altri nei nuovi settori, oggi le innovazioni tecnologiche, l’avanzata della automazione, erodono ed eroderanno sempre più posti di lavoro. Soprattutto si acuisce la polarizzazione delle competenze richieste nella produzione e conseguentemente quella delle retribuzioni. Cosicché la capacità di reddito è tutta a vantaggio di chi ha alte competenze per progettare e per usare le nuove tecnologie a discapito di chi non le possiede, una massa di persone impiegate in lavori poco retribuiti e poco gratificanti. Sono ormai diversi decenni che la forbice fra le retribuzioni dei dirigenti e dei lavoratori di alto livello e quelli dei lavoratori esecutivi si è andata fortemente, progressivamente allargando.

Il reddito “di base”, se lo si intende cioè come una “base”, un fondamento importante per la persona, o “di cittadinanza”, se si privilegia l’appartenenza a una nazionalità o a una “cittadinanza”, o “di esistenza”, se erogato “dalla culla alla bara”, differisce dalle forme di reddito minimo garantito soprattutto perché incondizionato.

Cioè esso dovrebbe essere:

  • strettamente individuale, ovvero indipendente dalla condizione famigliare;
  • universale, non subordinato alla verifica delle condizioni economiche;
  • e libero dall’obbligo di prestazioni lavorative.

Il reddito di base deve essere pagato in denaro, con regolarità, a tutti i membri della comunità, individualmente a eccezione che per i minori che avranno un reddito di entità inferiore versato per loro alla madre. Secondo Van Parijs e Vanderborgt questo porta anche a una ri/distribuzione del potere all’interno della famiglia, soprattutto in presenza di madri che non hanno nessun reddito o un reddito esiguo, così che potrebbe favorire forme di autodeterminazione femminile.

È pagato a tutti, non solo a quelli che sono certificati come poveri, ma anche ai ricchi, dalla fiscalità generale; l’introduzione di aliquote progressive nel regime della tassazione comporta che i ricchi si paghino il proprio reddito di base e contribuiscano a pagare anche quello degli altri in una logica ridistributiva. Il vantaggio di questa scelta è di liberare coloro che hanno bisogno di un sussidio o del reddito minimo garantito dal sottoporsi a procedure, indagini, accertamenti sulla loro condizione. Di liberarli dallo “stigma” dell’essere povero che inevitabilmente accompagna il comprovare lo stato di necessità. E di liberarli dall’esclusione dal lavoro e dal dovere accettare qualsiasi tipo di lavoro, pena la decadenza del beneficio. In questo modo verrebbe meno la ragione d’essere di tutta la burocrazia che ruota intorno all’erogazione dei sussidi, perché il reddito è una quota che lo Stato versa direttamente ai cittadini senza nessuna intermediazione burocratica.

Nella sua lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna nel novembre 2017, Van Parijs confuta alcuni luoghi comuni. Reddito di base non significa tramonto del lavoro o dell’etica del lavoro. Non è vero che il reddito di base porterebbe l’individuo che ne beneficia a non lavorare. Avere la garanzia di un reddito permetterebbe all’individuo di scegliere un lavoro e potrebbe aumentare la capacità contrattuale dei lavoratori soprattutto là dove i lavori sono malpagati. Pertanto significa tramonto del lavoro forzato, non «l’esonero dall’obbligo morale del lavoro». È più facile dire no a un lavoro qualsiasi e dire sì a un lavoro anche incerto, ma più aderente alla propria vocazione. O di esprimersi in attività di volontariato, di cura, in attività ora non remunerate. Il reddito di base è uno strumento ridistribuivo di giustizia sociale.

Ovviamente il discorso sulle risorse e sull’entità del reddito è molto complesso. Qualcuno indica che dovrebbe assorbire il 25% del PIL del paese in cui il reddito viene erogato, altri sostengono che dovrebbe avere l’entità che l’UE nei suoi “social pillar” raccomanda ai paesi membri: il 60% del reddito mediano. Ricordando che l’aumento della circolazione del denaro aumenterebbe la domanda interna di beni con conseguente beneficio sul PIL e sulla produttività.

Allo stato attuale esistono diverse sperimentazioni di erogazioni di reddito di base in alcuni paesi africani e latino-americani sostenute da organizzazioni intergovernative, ONG, agenzie dell’ONU e filantropi, alcuni dei quali traggono i loro profitti dalle imprese della Silicon Valley. E infatti da tempo proprio nella Silicon Valley sono allo studio l’avvio di sperimentazioni su campioni di persone in merito agli effetti che l’erogazione di un reddito di base avrebbe, sul benessere psico-fisico, sul comportamento sociale e socio-politico, sulla vita di relazione, sull’uso del tempo liberato dal lavoro. E questo la dice lunga sul futuro che ci attende: loro sanno verso quale mondo senza lavoro ci stiamo avviando.

Ma c’è anche un altro modo di finanziare/pagare il reddito di base. L’Alaska dal 1982 distribuisce un vero e proprio reddito di base a tutti i residenti nello Stato da almeno un anno, tramite un dividendo annuale tratto dai proventi del petrolio gestito da un Fondo Permanente. E ciò in virtù del fatto che la sua Costituzione afferma che le risorse naturali sono proprietà non dello Stato, ma del popolo. E Macao fa una distribuzione analoga, tramite compartecipazione ai proventi delle sale da gioco.

Quella del dividendo sociale – un dividendo versato a tutti i cittadini di una comunità, ricavato da un fondo di proprietà della comunità stessa – è una proposta che carsicamente viene alla luce (nel Regno Unito se ne parlava già negli anni ’40).

L’ultimo numero della rivista Basic Income Network Italia è interamente dedicato al Webfare, il diritto a un reddito di base pagato a tutti coloro che collegati alla rete producono gratuitamente una marea di dati, i Big Data, tutto appannaggio delle grandi compagnie del Web.

«Oggi – dicono Gobetti e Santini (membri del Basic Income Network Italia) – chi domina le tecnologie, i dati, le idee che navigano in rete, è un estrattore di valore, chi usa la rete, anche il più liberamente possibile, è di fatto in produzione. Producendo informazioni gratuite genera ricchezza. Lavora senza essere riconosciuto come produttore. […] Individuare una sorta di Manifesto del Webfare potrebbe delineare una nuova presa di parola per arrivare a rivendicare un reddito di base incondizionato per il nostro essere connessi alla rete». Un dividendo sociale in un’economia digitale, ridistribuzione di un prodotto “collettivo”.

Un dividendo sociale pagato anche attraverso la tassazione delle grandi compagnie del digitale a livello europeo è un’altra proposta per un’Europa inclusiva.

Il reddito di base va oltre il beneficio individuale. Esso per Giuseppe Allegri (sempre di BIN Italia) «è da intendersi come una nuova istituzione, promozione di politiche pubbliche di trasformazione sociale, capaci di valorizzare, per l’interesse collettivo comune, gli sviluppi progressivi offerti dalle innovazioni tecnologiche e digitali per immaginare collettivamente, e realizzare nel concreto, una nuova società del benessere».

Esso può quindi aprire alla costruzione della «solidarietà riflessiva» in una «società riflessiva» (per citare il sociologo Ulrich Beck) che significa promozione dell’autonomia individuale, in presenza delle molteplici differenze, e affermazione di istituzioni pubbliche, reali promotrici del benessere collettivo complessivo, attraverso la tutela dell’istruzione, della salute, dell’ambiente e della mobilità.

Un’utopia? Forse, ma, per dirla con Van Parijs, noi abbiamo bisogno di utopia.

E l’utopia di oggi, può essere la realtà di domani.

* Philippe Van Parijis è professore di Etica economica e sociale presso l’Università Cattolica di Louvain. Yannick Vanderborght è professore di Scienza politica all’Università Saint-Louis di Bruxelles e all’Università Cattolica di Louvain.

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