INDIVISIBILI

In occasione della proiezione di Indivisibili di Edoardo De Angelis (2016) presso il Cineclub Bellinzona lo scorso 8 novembre, Angelo Errani riprende sul blog di Metro-Polis alcune riflessioni suscitate dalla visione del film e dalla discussione a esso seguita.

di Angelo Errani

Le forti emozioni che inevitabilmente suscita la visione del film Indivisibili potrebbero impedire il tentativo di una riflessione non condizionata dal moralismo, cioè dalla tentazione di giudicare. Perché siamo sempre pronti a giudicare?

Ricordo di aver vissuto da adolescente, all’inizio degli anni Sessanta, lo stesso malessere profondo provato durante la visione del film di Edoardo De Angelis in occasione della lettura del libro di Curzio Malaparte, La Pelle. Libro ambientato proprio in quella parte del nostro paese che, a distanza di settanta anni, fa da sfondo alla storia raccontata nel film e che, come nel film, svela l’aberrante violenza della mercificazione dell’infanzia e della disabilità. Sono opere che consentono di mettere in luce ciò che Hannah Arendt è riuscita inequivocabilmente a dimostrare: «la banalità del male».

Il moralismo giustifica il suo diritto a giudicare ritenendo pregiudizialmente che il bene e il male siano ovvi, sottratti ad ogni dubbio, ad ogni possibilità di essere messi in discussione. Il bene e il male vengono essenzializzati e, quindi, sottratti alla relazione fra le persone e i relativi contesti. E giudicare è il salvagente a cui viene istintivo aggrapparci per cercare di prendere le distanze, per rassicurarci sul fatto che ciò che è aberrante non ci riguarda.

Come riuscire a evitare la trappola del moralismo ma non sottrarci invece al dovere morale di cercare di capire?

Propongo una riflessione guidata da tre parole: Umanità, Normalità, Identità.

Umanità

La domanda che gli orrori di tutti i tempi inevitabilmente ripropongono è: umani si nasce o si diventa? Sulla risposta le opinioni divergono e si contrappongono.

Una prima pista di ricerca imputa le terribili crudeltà di cui gli umani si sono resi protagonisti, nel passato e nel presente, a peculiarità psicologiche, al carattere individuale, alla personalità determinata da predisposizioni naturali. Come sarebbe confortevole il mondo se a commettere azioni mostruose fossero soltanto dei mostri! Ma il fatto che i mostri tante volte nella storia si siano incarnati in persone normali, persone esattamente come noi, e che questi siano stati capaci, in determinate situazioni e condizioni, e tante volte con l’approvazione di maggioranze sociali, di agire in modo perverso, toglie ogni credibilità a questa versione dei fatti.

Una seconda pista di ricerca richiama il condizionamento dell’ambiente: la collocazione sociale, le condizioni che fanno percepire come normali i comportamenti peggiori, comportamenti che, in condizioni differenti, rimarrebbero inespressi. Una logica secondo la quale l’ambiente determinerebbe il destino delle persone. Gli sviluppi nel percorso di crescita delle protagoniste del film smentisce questa rappresentazione senza aperture verso l’inedito.

Una terza pista di ricerca, che possiamo indicare come antropologica, accoglie la logica del condizionamento fra individui e ambiente, ma la sottrae al determinismo che la limitava. Con gli individui e gli ambienti interagisce infatti un terzo fattore: l’educazione.

Gli studi di genetica hanno inequivocabilmente dimostrato che siamo formati dagli stessi materiali di tutti gli altri esseri viventi e che siamo solo montati in modo diverso. È l’educazione, elemento che la biologia non può spiegare, che ci differenzia. Strutture mentali come etica e morale non possono infatti rientrare nella logica della biologia.

Considerato che, come ci suggerisce Gunther Anders, «Quel che è stato fatto una volta può essere ripetuto con ancor più deboli riserve», se coloro che hanno responsabilità pubbliche dedicano gran parte delle loro energie a un’azione di educazione quotidiana alla disumanità e all’odio, il rischio che si ripeta ciò che è avvenuto nel passato diverrà ancora più serio. Il disinteresse poi nei confronti dell’impegno educativo e per l’impegno costituzionale di «rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» ha inevitabilmente come conseguenza la formazione di cittadini che non si porranno più alcuna domanda, perché non avranno neppure più i mezzi culturali per porsela. Per questo, aggiunge Anders, «Il più importante compito morale è quello di rendere le persone consapevoli che hanno bisogno di essere allertate e che le paure che le assillano hanno valide ragioni».

Normalità

Dasy e Viola, le due protagoniste del film, sono due adolescenti gemelle unite in una parte del corpo, caratteristica che richiama come conseguenza una rappresentazione di anormalità.

Ma che cos’è la normalità?

Zygmunt Bauman ci spiega che la normalità è il nome elaborato ideologicamente per significare una maggioranza statistica. Conseguentemente l’anormalità presuppone che alcune unità di un totale complessivo non siano conformi alla norma e l’elaborazione ideologica si riferisce all’idea che le unità di un certo tipo non sono soltanto in maggioranza, ma esse sono come si deve essere, sono giuste e appropriate, mentre, al contrario, quelle che difettano di tale attributo sono come non dovrebbero essere, sono sbagliate.

Rapportando tale logica alle persone, se ne determina inevitabilmente una rappresentazione di inferiorità, fatto che ha legittimato una lunga storia di esclusioni e che ha avuto il suo esito più drammatico, unitamente alle leggi razziali contro i cittadini ebrei gli zingari e gli omosessuali, nell’eliminazione, da parte dei nazisti, di migliaia di bambini e adulti disabili, indicati come vite senza valore.

L’elaborazione ideologica della disabilità si è concretizzata fin dall’antichità secondo due direttrici opposte ma compresenti. I disabili come esseri inferiori, disumani, e, di conseguenza, a seconda della convenienza e dei contesti, uccisi, nascosti o esibiti come curiosità, utilizzati come mendicanti e/o buffoni, oppure la loro diversità è apparsa talmente radicale da non riuscire a essere inserita in un quadro di alterità concettualmente comprensibile, e ci si è così sentiti autorizzati a ricorrere all’altra possibilità di alterità, l’assimilazione al divino: folli e veggenti, luogo di incarnazione del demonio e occasione di espiazione attraverso la pietà e la carità, specialisti della mediazione fra cielo e terra cui affidare voti e richiesta di miracoli.

Identità

Appartenenza e ricerca di autonomia, come per tutte le adolescenti, sono compresenti nella vita di Dasy e Viola. Il film caratterizza le due sorelle anche individualmente, sottolineandone le differenze nelle aspirazioni, fantasie, comportamenti. È possibile che il regista utilizzi lo stratagemma del differenziarsi pur nella condivisione dello stesso corpo per aiutarci a rivedere le nostre certezze riguardo all’identità, che convenzionalmente riduciamo ad un solo aspetto, nascondendone la pluralità. Siamo abituati infatti di volta in volta a schiacciare l’identità, quella nostra come quella del nostro prossimo, in uno schema binario, secondo un parametro positivo o negativo, con caratteristiche che imprigionano le persone in un solo aspetto, cancellando così la gamma straordinaria delle sfumature e la dialettica che anima ogni percorso di vita.

Gli sviluppi della storia narrata dal film ci aiutano inoltre a capire che non possiamo rinchiudere l’altro nelle nostre previsioni, come se un ambiente fosse inevitabilmente padrone del futuro di ogni vita. Ci invitano a considerare le persone come divenire, suggerendoci una prospettiva di apertura all’inedito.

Riferimenti bibliografici:

  1. Anders (1995), Noi, figli di Eichmann,Firenze, Giuntina.
  2. Arendt (1964), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli.
  3. Bauman (2011), Le sorgenti del male, Trento, Erickson.
  4. C. Malaparte (1949), La Pelle, Roma-Milano, Aria d’Italia.

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