APPETIZER BOOKS: IL TEATRO DI SABBATH – PHILIP ROTH

Edito da Einaudi, 2015, pp. 472

Graffiante e insolente questa storia. Spregiudicata nella volgarità e nell’ambivalenza. Essere un reietto è ormai una sorte del nostro tempo; una sorte che gode dell’estrema ineluttabilità della sua essenza; una sorte di cui Sabbath è vittima consapevole. Nel racconto delle strane, erotiche vicende di questo giovane pieno di sfacciato talento ma appassito nel corpo di un vecchio consumato dall’artrite, fabula e intreccio si scontrano annullandosi, assumendo gli spazi della coscienza e del tempo del sogno. “Non c’era più niente che fosse soltanto quel che era; ogni cosa gliene rammentava un’altra, passata e perduta o sul punto di perdersi”. Il percorso di questo fallito teatrante, costellato di ogni possibile scelta sbagliata, diviene il cammino verso una consapevolezza che ha tutti i toni meno quelli del Nirvana: non c’è scampo, non vi è fuga, non vi è redenzione. “Sorseggiando la feccia della sua stessa tazza, finalmente Sabbath sollevò lo sguardo da quell’errore sommerso che era il suo passato. Anche il presente sembrava in progresso […], il venerabile presente moderno che parte dalla fine dell’evo antico e va dritto e spedito dal Rinascimento ad oggi: questo presente che sempre cominciava, che mai finiva era ciò cui Sabbath stava rinunciando. Trova ripugnante la sua inesauribilità. Già solo per questo, dovrebbe morire. Ha condotto una vita stupida: e allora? Chiunque con un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perché non ne esistono di altro genere”. Da qui, una corsa contro il tempo e contro se stessi, come se le lancette di una bomba a orologeria stessero vibrando il loro conto alla rovescia, senza che vi sia davvero un punto d’arrivo.

Francesco Colombrita

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