IN VIAGGIO – ARIOSTO CI PORTA SULLA LUNA

di Rosalba Granata

Orlando è impazzito per amore.

Possiamo immaginare quale danno sia per l’esercito cristiano di Carlo Magno la lontananza del più forte tra i paladini dal campo di battaglia.

È assolutamente necessario recuperare il suo senno. La missione viene affidata ad Astolfo, già protagonista impavido di imprese stravaganti.

E dov’è finito il senno di Orlando? È sulla Luna. È qui che si raccolgono tutte le cose che si perdono sulla terra.

Astolfo raggiunge il Paradiso Terrestre in groppa all’Ippogrifo, poi, accompagnato da Giovanni Battista che gli fa da guida, arriva alla Luna a bordo del Carro di Elia. 

Da lassù la Terra, con stupore del paladino, appare piccola e distante come solitamente vediamo la Luna.

Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.

E sulla Luna c’è un altro mondo, ecco come lo vede Astolfo:

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Sulla Luna vi è, come abbiamo detto, tutto quello che si perde sulla terra: le speranze di ricevere onori, le occupazioni vane, le adulazioni nei confronti dei signori, gli amori infelici, il tempo sprecato al gioco…

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Nella ironica rassegna di Ariosto delle cose perdute vi sono quindi tutte le vanità e follie umane rappresentate da oggetti simbolici ammucchiati alla rinfusa in un vallone: minestre rovesciate, cicale scoppiate, bottiglie rotte, fiori puzzolenti, vesciche, ami d’oro, ghirlande con nascosti dei lacci… Molte di queste cose vane rimandano al rapporto dell’uomo con il potere.

Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.

[…]

Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Mille e mille cose si trovano in quel luogo. Solo la pazzia non si può trovare sulla Luna perché sta sulla terra «né se ne parte mai».

Ma il monte più alto è quello composto da «ampolle» che contengono il senno rappresentato metaforicamente come un liquore «sottile e molle atto a esalar, se non si tien ben chiuso».

E come si perde il senno? Sono tanti i modi e Ariosto li enumera e li scandisce:

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

Sofisti (filosofi, astrologi, poeti) sono figure importanti nelle corti del Cinquecento. Astolfo è stupito perché sulla Luna trova il senno di persone che sulla terra si riteneva ne avessero molto.

La più grande di tutte è quella di Orlando. Come la riconosce Astolfo? Facile. C’è scritto sopra «Senno d’Orlando».

Orlando Furioso. Illustrazione di Gustave Dorè.

Il viaggio sulla Luna è uno degli episodi che racchiude in sé il senso generale del poema: la vanità delle cose terrene, tema ricorrente nel Furioso seppure dissimulato dietro alle molteplici avventure romanzesche e dalla sorniona e misurata ironia. Nell’inseguire vane mete si manifesta la fondamentale follia degli uomini.

Cosa può ancora oggi comunicarci Ariosto?

Ariosto è sicuramente la coscienza poetica più elevata dell’età rinascimentale. Nel suo poema ha dato espressione all’ideale di perfezione umana e armonia della sua epoca della quale avverte con inquietudine dietro lo splendore il sopraggiungere di una crisi. Infatti nella sua rappresentazione dell’uomo non c’è più l’entusiasmo ottimistico di Boccaccio che, alle soglie di un’epoca nuova, il nascente umanesimo, ne rappresentava la realizzazione terrena. La stessa centralità la troviamo in Ariosto ma sono pienamente avvertiti i suoi limiti. 

«Sorprendentemente questa sintesi di motivi più vitali del tempo si realizza in un’invenzione tutta favolosa, in apparenza lontana dalla realtà: quel che il Furioso può ancora insegnare è che anche immergendoci nelle fantasie più stravaganti e spericolate possiamo ritrovare in quel mondo incantato noi stessi, la varietà inesauribile della vita». (Armellini)

SFONDAMENTO CRONOLOGICO

Tre immagini VERSO LA LUNA

Canto notturno

Il Canto notturno del pastore errante nell’Asia di Leopardi è del 1830. Chiude quindi la stagione dei capolavori dei Canti pisano-recanatesi.

Il pastore viaggia con il suo gregge in un territorio immenso e deserto. Guarda verso il cielo, inizia un dialogo con la «silenziosa Luna». Si pone domande. Sono le domande che da sempre l’uomo si pone sul senso dell’esistenza.

La Luna sembra accompagnarlo nel suo cammino e il pastore inizialmente paragona il suo viaggio sulla terra a quello della Luna in cielo. Tanto che afferma «Somiglia alla tua vita la vita del pastore», poi però si rende conto dell’enorme differenza:

Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Il Viaggio sulla Luna di Melies

Una navicella si schianta sulla Luna nel film di Melies del 1902. 

Il Viaggio sulla Luna è tratto liberamente da romanzi di Verne e Welles, e viene riconosciuto come il primo film di fantascienza.

Sono in totale 17 quadri, un vero racconto, cosa inusuale per il tempo.

Un gruppo di astronomi decide di lanciare una navicella, a forma di proiettile, sulla Luna. Si imbarcano e vengono sparati da un cannone. Un gruppo di ballerine intanto festeggia l’evento. La navicella si conficca direttamente nell’occhio della Luna provocandole una vistosa irritazione.

I viaggiatori scendono e incontrano gli abitanti del satellite, i Seleniti, da questi vengono catturati e portati davanti al loro Re. Riescono a scappare e ripartono, facendo cadere il proiettile verso il basso, verso la Terra. Cadono in mare e qui vengono riportati al porto.

 Dal Viaggio sulla Luna, primo film di fantascienza del 1902, passiamo al capolavoro di Kubrik: 2001 Odissea nello spazio. Siamo nel 1968.

Aprono il film le immagini dell’Alba dell’umanità. Sono immagini spettacolari, veramente stupefacenti. 

Un monolite nero è apparso misteriosamente nella Terra di quattro milioni di anni fa.

Con il suo alieno potere fa passare scimmieschi ominidi dallo stadio bestiale a quello umano. L’intensità della scena è sottolineata dalla forza della musica di Strauss.

Un osso, scagliato in aria con un grido di trionfo, si trasforma in un’astronave in viaggio verso la Luna. È l’anno 1999, alle soglie del Duemila.

Un monolite nero è stato scoperto sulla Luna. Nella suggestiva prima luce dell’alba lunare, di fronte agli scienziati in missione segreta per studiarlo, emette un forte segnale radio nel cosmo. L’uomo è pronto per proiettarsi verso lo spazio.

Kubrick, già regista affermato, decise di realizzare il film in collaborazione con lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke e prese come spunto di partenza il suo racconto La sentinella.

Come tutti i film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio non può essere raccontato. Va visto.

Quando è stato chiesto al regista di dare una qualche interpretazione del film ha sempre risposto che non voleva che lo spettatore fosse forzato ad una interpretazione precostituita. Voleva piuttosto raggiungere «il subconscio degli spettatori». Kubrick utilizzava anche una similitudine con la Gioconda, svelare il segreto del suo sorriso vorrebbe dire attenuarne il fascino. 

Il titolo 2001:Odissea nello spazio ci ripropone la figura dell’itinerario, anzi il più famoso e classico degli itinerari nella storia della civiltà: l’Odissea. 

È un film decisamente difficile da interpretare. Visionario, “filosofico”, ai limiti della comprensibilità razionale: assolutamente affascinante.

E più che darsi ad interpretazioni schematiche il piacere sta proprio nell’abbandonarsi alla suggestione delle scene, trasportati dalla travolgente colonna sonora. Colonna sonora che è una delle più famose nella storia del cinema, ed è composta da celebri brani di musica classica tra i quali Sul bel Danubio blu di Johann Strauss figlio e Così parlò Zarathustra di Richard Strauss.

E la scelta di quest’ultimo brano, che sottolinea i punti di svolta della storia, probabilmente non è casuale, in quanto il poema sinfonico di Richard Strauss è ispirato all’omonima opera di Friedrich Nietzsche, nella quale si narra la discesa del profeta Zarathustra tra gli uomini per insegnare loro a divenire esseri liberi dai propri limiti

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