IN VIAGGIO – CON PETRARCA VERSO LA CONOSCENZA DEL SÉ

di Rosalba Granata

Petrarca nello Studio

In Petrarca il viaggio è occasione di riflessione. È riflessione su di sé. È scavo nella soggettività.
Come in Dante anche in lui vi è l’aspirazione alla beatitudine celeste.
Ma la sua opera è una continua confessione delle oscillazioni della sua coscienza, delle oscillazioni tra cielo e terra.

 Il 26 aprile del 1336 scrive un’Epistola all’amico Dionigi di San Sepolcro:

«Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso».

Parte con il fratello Gherardo e affronta la dura salita verso la vetta. 

Ben presto, quando il sentiero si fa più faticoso, i due fratelli si comportano in modo molto diverso. Gherardo cerca la via più diretta anche se impervia, Francesco, al contrario, spera «di trovare un sentiero più agevole […] una strada che magari fosse più lunga ma più piana».

Questo lo porta a girovagare, a perdere spesso la via e arriva alla meta stremato dalla fatica mentre il fratello ha avuto tutto il tempo per riposare.

Petrarca si sofferma quindi a riflettere sulle analogie di questa esperienza con la sua vita. È certamente consapevole del suo desiderio di raggiungere la perfezione spirituale, questa è la sua meta, ma con facilità si lascia distogliere, si dibatte e si sente ancora legato a passioni terrene di cui si sforza di liberarsi.

«Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo ma meno; ecco ho mentito di nuovo: lo amo ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, […] nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza».

Queste sono le contraddizioni dell’animo, queste le confessioni del dissidio interiore che troviamo in tutte le sue opere.

Sulla vetta del monte, per cercare ispirazione, apre il libro delle Confessioni di Sant’Agostino, che porta sempre con sé. Ed è con estremo stupore che legge la prima frase che si pone ai suoi occhi: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».

Rimane ammutolito. La frase rispecchia a tal punto il momento presente e le riflessioni in cui è calato che non ha più dubbi di dover rivolgere gli «occhi della mente» in se stesso e afferma:

«Quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri».

Questa celebre lettera è abitualmente proposta come esempio e testimonianza della modernità di Petrarca e della “scoperta dell’interiorità”. 

Il testo, tra tono colloquiale e ricercatezza stilistica, mette insieme eventi autobiografici e lettura allegorica dell’esperienza.

Petrarca Canzoniere

La stessa oscillazione tra pentimento e consapevolezza della forza delle «catene terrene» la troviamo nel dialogo-confessione con Agostino del Secretum e in tutta la raccolta poetica del suo capolavoro, Il Canzoniere.

Così il poeta si presenta nella prima quartina del sonetto proemiale Voi ch’ascolate in rime sparse il suono.

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono.

Il poeta si rivolge quindi ai suoi lettori, cerca la loro comprensione per gli errori del suo cuore giovanile, quando era un peccatore, quando era un uomo diverso, o perlomeno lo era almeno in parte

Per dare un esempio del dissidio interiore che lacera il suo animo rileggiamo il bellissimo sonetto Solo et pensoso:

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

Il poeta cerca la solitudine, cerca luoghi deserti, dove non siano presenti altri esseri umani. 

È assolutamente consapevole che la sua fuga è l’unico “schermo”, l’unico riparo per nascondere la passione infuocata che vive in lui. 

Il suo cammino è occasione di un viaggio dentro di sé e il pensiero ossessivo dell’Amore lo accompagna sempre e con lui è un dialogo costante, un ragionare ininterrotto.

Il poeta quindi confessa la sua passione lacerante, ma questa non viene espressa in modo tumultuoso. Ha acquisito dai classici la concezione della poesia come armonia, eleganza, equilibrio.

In antitesi con la condizione interiore di tormento il ritmo è composto, pacato. La simmetria formale è perfetta. 

Notiamo, per esempio, come nella prima strofa siano disposte simmetricamente le coppie degli aggettivi: “solo” e “pensoso” a inizio verso, “tardi” e “lenti” alla fine del secondo.

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,

La stessa simmetria la troviamo per i sostantivi nei versi 9 e 10

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre…

In questo caso i sostantivi sono legati dalla ripetizione della “e” (polisindeto) e l’elenco è diviso in due dall’enjambement.

Natalino Sapegno esprime molto bene le caratteristiche della poesia di Petrarca.

«La tempesta della passione è già qui superata, e risolta nel tono di confessione lucida, meditata, serena, sebbene percorsa di fremiti e dissidi segreti. Non c’è passione che si manifesti con violenza, tutto è filtrato dallo schermo della memoria, ma soprattutto l’impressione prodotta dal controllo formale».

 Sfondamento Cronologico

Saba in un dipinto di Bolaffio

Un Canzoniere del Novecento

Saba intitola Canzoniere la sua raccolta di poesie, e non è certo un caso, per lui infatti Francesco Petrarca ha sempre rappresentato punto di riferimento e importante modello. 

Il Canzoniere di Saba è un viaggio alla ricerca dell’identità. Il poeta vi racconta praticamente tutta la sua vita in versi. 

«Psicanalitico prima della psicanalisi» lo definiva Contini alludendo all’importanza che nella sua poesia assume la dimensione interiore. Incessante è lo scavo in profondità per comprendere l’inquietudine dolorosa che tormenta la sua vita.

Perdurando la sua sofferenza nel 1929 Saba decide di sottoporsi a una terapia psicanalitica con il medico triestino Edoardo Weiss.

Anni dopo, nel 1952, in una lettera all’amico Vittorio Sereni, testimonia come questa esperienza abbia per lui costituito un importante strumento di conoscenza. «In realtà, più che guarire, personalmente, ho capito molte cose dell’anima umana, che prima mi erano non solo oscure, ma addirittura insospettate».

Saba

Nei sonetti della raccolta Autobiografia è in primo piano il tema della lacerazione affettiva conseguente alla sua situazione familiare. Saba attribuisce la causa della sua nevrosi alla conflittualità irrisolvibile tra mondo materno e quello paterno.

Nella raccolta, dopo un primo sonetto proemiale(1), quelli successivi sono dedicati alla madre e al padre.

Nel sonetto secondo, Quando nacqui mia madre ne piangeva, Saba ricorda la madre che piange per la sua nascita, sola, di notte, nel letto abbandonato accudita dai parenti del ghetto ebraico. 

Quando nacqui mia madre ne piangeva,
sola, la notte, nel deserto letto.
Per me, per lei che il dolore struggeva,
trafficavano i suoi cari nel ghetto.

In una lettera del 1929 Saba scrive a Debenedetti «Devi sapere che alla radice della mia malattia stava la mancanza del padre: ma come, in qual senso e con quali conseguenze è cosa incredibile e vera». 

Gli è stato insegnato che il padre è l’“assassino”, l’uomo malvagio a cui il figlio non deve assolutamente somigliare. Quando a vent’anni lo incontra gli sembra invece un bambino e lo vede simile a lui, gli stessi occhi azzurri, il sorriso dolce e furbo insieme. È stato un giramondo, molte donne l’hanno amato e nutrito, è allegro e leggero, come un pallone. È il contrario della madre per cui la vita è sempre un peso da sopportare.

Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.(2)

 

Note:

  1. Saba per quanto riguarda lo stile è stato definito “anti-novecentista”, infatti, in controtendenza rispetto a gran parte dei poeti del suo tempo, riprende le forme metriche della tradizione, il sonetto, l’endecasillabo e il settenario, utilizza le rime, soprattutto baciate. Anche il linguaggio è molto semplice, caratterizzato in gran parte da parole concrete e quotidiane.
  2. Allude al fatto che la madre, al contrario del padre, era ebrea.

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