PAROLE COME DIAMANTI: DE PRUFUNDIS DI OSCAR WILDE

Nel mondo letterario, la triste parabola umana di Oscar Wilde è forse la più emblematica per mostrare come la mediocrità possa annullare il genio.

Wilde è universalmente conosciuto come il brillante commediografo, il dandy animatore dei salotti, il sagace creatore di aforismi e l’affascinante uomo di società. Pochi, tuttavia, conoscono il suo lato più profondo ed autentico, quello che emerse nel carcere di Reading, in cui scontò due anni di lavori forzati per ‘sodomia’, termine orrendo che, in Inghilterra, equivaleva a reato sino al 1967.

Ma, in questo caso, non vogliamo contrapporre la grandezza artistica di Wilde alla miseria umana di colui che ne causò, materialmente, la catastrofe: Alfred Douglas, il giovane amante a causa del quale il brillante scrittore fu condannato ai lavori forzati, non fu altro che il reagente chimico che scatenò una serie di conseguenze funeste. 

La premessa è questa: Lord Douglas, allora ventiduenne, contattò Wilde (che aveva all’epoca 38 anni) e, ben presto, i due divennero amanti; il padre del giovane, che non sopportava la relazione e il ‘pubblico scandalo’, tentò in tutti i modi di indurre il figlio a troncare il rapporto con Wilde, fino a lasciargli un biglietto, presso un club frequentato dallo scrittore, in cui lo insultava dandogli del ‘ruffiano e sodomita’. Alfred Douglas, per tutta risposta, cominciò a sobillare l’amante suggerendogli di denunciare il padre per calunnia. Alla fine Wilde cedette e, da questo punto, iniziò la sua caduta artistica ed umana.

Come scrisse acutamente Jorge Luis Borges al riguardo, l’accettazione di questa sfida fu, in un certo senso, un suicidio consapevole.

Schermata 2015-09-14 alle 13.05.03La storia di Wilde è tragica in quanto esemplare del ‘grande’ che diventa vittima (e complice) del mediocre, mediocre cui è legato, nel profondo, dalle proprie pulsioni più basse, come lo stesso artista scrisse («Solo nel fango ci incontravamo»).

Dove, per ‘più basse’, non si intende, banalmente, solo il sesso (che talvolta può essere, anzi, un ‘mezzo’ molto elevato) ma un ‘gioco’ di coppia fatto di ricatti affettivi, ripicche, ritorsioni, abbandoni, capricci, continue richieste di denaro.

Una volta condannato, Wilde non ricevette mai, in carcere, un solo biglietto di scuse o di saluti dall’ex-amante. Solo, abbandonato da quasi tutti, esposto alla pubblica gogna, umiliato in tutti i sensi, ripensò a tutta la vicenda e guardò, forse per la prima volta, dentro al suo animo.

Ne nacque una lunghissima lettera destinata a Douglas, pubblicata –per sua volontà– solo dopo la sua morte col titolo De Profundis: non è solo lo sfogo di un amante che si sente deluso e tradito, ma una ricerca di spiritualità, un disperato grido d’amore e di aiuto, un’autoanalisi lucidissima, un j’accuse, uno scavo impietoso nei meccanismi di un rapporto. Ecco allora che, dimenticate le battute brillanti e i giochi di parole, dalla penna di Wilde escono frasi molto diverse, come questa: “Quando si è ben pesato il sole, misurato i gradini della luna e fatto il disegno dei sette cieli, stella per stella, resta sempre il nostro io. Chi può calcolare l’orbita della propria anima?

E proprio quel pianeta sconosciuto che è il nostro ‘io’ diventa l’unica risorsa di un uomo che ha perso tutto, tranne la capacità di scrivere. E che si rende conto, nella solitudine di una cella buia e fredda, che l’amore può fare anche molto, ma molto male.

Non a caso, sempre in quel periodo, scrisse la famosa Ballata del carcere di Reading, in cui afferma che “ogni uomo uccide ciò che ama”.

È un Wilde che, ‘dal profondo’ cambia pelle come i serpenti, lasciandoci parole e riflessioni che colpiscono come pugni.

Danila Faenza

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