Storie americane (I) – Tra letteratura, teatro e grande cinema: il genio dannato di Tennessee Williams

Quello tra gli anni ’50 e i primi anni ’60 è considerato il periodo d’oro del cinema hollywoodiano. Tuttavia, tra “kolossal storici” (vagamente kitsch) e commedie romantiche, l’immagine che ne emerge è spesso quella di film ingenui, forse leggeri, oppure di veri e propri “polpettoni”. Detto questo, la vastissima produzione cinematografica di quegli anni è in realtà una vera e propria miniera di temi scottanti e complessi, trattati con quella intelligenza e profondità che solo una censura ottusa e impietosa può ispirare. Le performance di divi intramontabili, il coraggio di registi geniali, il fascino delle pellicole in bianco e nero e le storie drammaticamente umane dal lieto fine non scontato creano quella vera e propria magia che rende ancora grande ai nostri occhi quel periodo.

In quell’universo pieno di fermento, contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, il ruolo della letteratura non venne affatto offuscato, ma al contrario fu centrale. Premi Nobel come William Faulkner e John Steinbeck, autori come Harper Lee, Truman Capote, Edna Ferber, e molti altri, hanno contribuito non poco a fornire (direttamente o indirettamente) materiale prezioso per le sceneggiature di pellicole divenute pietre miliari della storia del cinema.

Fu in questo contesto che Tennessee Williams (alla nascita Thomas Lanier Williams) si inserì prepotentemente, in primo luogo grazie ai suoi testi teatrali di grande successo: testi provocatori, duri, cinici, che raccontavano storie di uomini e donne ai margini della società americana, quella società che era uscita vittoriosa e ricca dalla Seconda guerra mondiale, ma che evidentemente nascondeva un altro volto. Un volto a cui Williams diede spazio, senza timore di attirare critiche o di fomentare scandali. I protagonisti delle sue opere sono emarginati, falliti, nevrotici, arrampicatori sociali, alcolizzati, “peccatori sessuali” (omosessuali, prostituti, adultere…) che non riescono a emanciparsi dalle loro situazioni di degrado, ma che anzi spesso sembrano puniti dal destino per il solo fatto di aver provato a cambiare ciò che evidentemente era già scritto. Williams scava negli abissi più cupi delle città e delle province americane, in particolare quelle ipocritamente conservatrici del Sud, e negli abissi più sordidi dell’animo umano.

Foto 3Se però le opere teatrali potevano essere messe in scena in modo fedele ai testi, le trasposizioni cinematografiche avevano vita assai più difficile. I film tratti dai lavori di Williams restano drammatici e (tendenzialmente) senza lieto fine, sebbene i dialoghi siano costretti a ricorrere continuamente ad allusioni e a giocare sul “detto-non-detto”. Esempio perfetto è forse uno dei drammi meglio riusciti di Williams: A Streetcar Named Desire (1951). La ninfomania della protagonista (la tormentata e mentalmente instabile Blanche DuBois,  interpretata da una superba Vivien Leigh) emerge solo in modo latente, così come la scena della violenza che la stessa Blanche subisce da parte del cognato (il rude Stanley, ruolo che consacrò Marlon Brando) viene lasciata intendere allo spettatore attraverso un gioco di specchi. Tutti questi aspetti sono invece espliciti nel testo originale. Allo stesso modo, il finale, pur doloroso, viene comunque “ammorbidito” nella versione cinematografica: la sorella decide di credere a Blanche e, portando con sé il figlio in fasce, abbandona definitivamente il brutale marito. Nella versione originale al contrario, anche se tormentata dai dubbi, sceglie di rimanere nella sua casa, cercando di convincersi che quella terribile storia fosse solo l’ennesima fantasia della oramai del tutto impazzita Blanche. Anche i finali di altre pellicole hanno subito sorti simili. Così nel film Sweet Bird of Youth (1962), il protagonista, lo gigolo Chance Wayne (Paul Newman), è infine punito dal rivale in amore che gli sfregerà il volto per sempre, mentre nella versione originale veniva addirittura evirato.

Il mondo degli anti-eroi di Williams non lo ritroviamo solo a teatro e al cinema, ma anche nei suoi racconti. È stata quindi una meravigliosa sorpresa imbattermi casualmente qualche mese fa in un libro appena uscito in italiano, L’innocenza delle caramelle (Edizioni e/o, maggio 2014), che include sia i racconti originariamente pubblicati con il titolo One Arm and Other Stories sia quelli della raccolta Hard Candy. Anche se era già possibile conoscere Williams attraverso i suoi testi teatrali ricchi di dialoghi magistrali, questo volume permette finalmente di leggerlo anche come scrittore di prosa. E Williams si dimostra un genio persino in questa dimensione. Le storie che si succedono hanno strutture essenziali, la prosa è limpida, scorrevole, e tutto questo contrasta fortemente con la complessità dei temi affrontati e dei personaggi descritti. Scorrendo l’indice si individua anche quella storia terribile e meravigliosa insieme, Portrait of a Girl in Glass, che si trasformerà in quel capolavoro teatrale conosciuto come Lo zoo di vetro.

I protagonisti di questi racconti sono messi a nudo senza pietà e vengono delineati con una tale profondità psicologica che sembrano prendere concretamente vita davanti ai nostri occhi nelle loro debolezze, paure, sogni, delusioni. Appaiono come ritratti dipinti da una miriade di pennellate diverse, ognuna a rappresentare una sfaccettatura diversa e unica della psiche, ma che nel loro insieme rivelano una figura ben precisa. Il lettore si trova infine a tifare per questi anti-eroi perché, pur nella bassezza della loro condizione sociale e umana, è possibile ancora scorgere una luce, una via d’uscita, un barlume di speranza, che tuttavia si rivela sempre inafferrabile. Non siamo affatto spinti al giudizio, ma solo alla pietas. E forse la sensazione di empatia che si prova nei loro confronti è dettata dal fatto che, pur consapevoli di trovarci di fronte a una realtà spesso esasperata, capiamo che Williams ci rivela qualcosa che è angosciosamente e geneticamente parte dell’uomo in quanto tale. E, quindi, di ognuno di noi.

Beatrice Collina

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