DIARIO DI BORDO – SECONDA SETTIMANA

di Mattia Macchiavelli

BOLOGNA, 16/03/2020
DIARIO DI BORDO N°6.

Oggi è stata la giornata più difficile. La giornata delle scelte pesanti e delle comunicazioni complesse, dove anche le parole si asciugano e fanno fatica, schiacciate dal peso delle responsabilità. Perché quelle scelte ho contributo a disegnarle e perché quelle comunicazioni mi sono incaricato di darle. La tosse nervosa mi ha accompagnato tutto il giorno e di questi tempi non è il massimo, sicuramente non il miglior biglietto da visita dopo un «Ciao!».
Lavorare in un’associazione è tra le cose più impegnative che io abbia mai fatto, perché i confini – di nuovo, i confini – sono così labili e perché le dimensioni sono così tante. Quando facevo il receptionist in palestra dovevo far pagare gli abbonamenti, drenare il bagno turco, rispondere «Sport Village buongiorno sono Mattia»; semplice: un co.co.co di ultima categoria che, per renderlo spendibile nel curriculum, mi sono preso la licenza poetica di trasfigurare in «organizzazione del tempo e dello spazio della palestra». Quando facevo il salumiere dovevo affettare mortadelle da 15 kg e la mia massima preoccupazione era quella di tagliarla il più fine possibile senza farne coriandoli, accanto, ovviamente, all’imperativo categorico di chiacchierare amabilmente con le mie vecchine (più un piacere che un dovere). Oggi sono responsabile del lavoro e lavoratrice. Stipendiata e volontaria. Burocrate e attivista. Oggi debbo padroneggiare cose di cui una settimana fa quasi non sapevo l’esistenza e ho il compito di aiutare a pensare soluzioni e strumenti laddove né soluzioni né strumenti esistono. Un lavoro che deve essere creativo e che vuole essere rigoroso, altrimenti non è. Un lavoro che ha come soggetto e come oggetto la persona, le persone, e in ognuna sta nascosto un mondo intero di risorse, problemi, vissuti, domande ed esigenze. Questo mi spaventa molto, perché so di non esserne all’altezza, perché nessuno può esserlo: nessuno può contenere un numero così ricco di variabili incrociate. Ho passato tutto il giorno attaccato al telefono, pronto a farmi carico di qualunque cosa, ma dall’altra parte ho ricevuto solo amore. Un’onda d’urto che mi ha travolto completamente. Che mi ha ricordato quanto noi frocie casserine siamo, sì, delle rompicoglioni senza redenzione, ma anche e soprattutto comunità. Noi ci siamo ed esserci, oggi, non era scontato. Questa penso sia la lezione che porterò con me domani, tra una settimana, un mese o quando sarà. Il fatto che ci siamo anche quando non è scontato esserci.
Oggi è stata la giornata più difficile. Ma forse anche la più bella.

BOLOGNA, 19/03/2020
DIARIO DI BORDO N°7.

Ciò che più mi pesa è la distanza con mia nonna. Lei compirà 92 anni il 25 marzo e questa mia tosse persistente rischia di metterla in pericolo. Così, è da poco prima che cominciasse la storia delle restrizioni che praticamente non la vedo, salvo un paio di sporadiche incursioni, col doppio della distanza di sicurezza, munito di mascherina, per poco tempo.
A dividerci solo una porta. Sento i suoi passi incerti, abbinati a quel modo che ha di sbuffare, e so quello che sta facendo, lo so per certo, non c’è bisogno di indovinarlo, perché convivere per così tanto tempo ti insegna a leggere anche i suoni. So quello che sta guardando perché è dura d’orecchie e, quando non usa le cuffie per la TV, è come se avessi una cassa sparata direttamente in faccia; è sempre così, con la differenza che ora non posso sbobinare questi ricordi sonori e usarli come pretesto per farle esercitare la memoria nelle nostre chiacchierate.
Il lavoro di cura, con lei, ce lo smezziamo mia madre e io, quasi totalmente mia madre e io; ne parlavo proprio ieri con Elisa e non ho saputo trovare una risposta al perché questi compiti, che sono per me esercizi d’affetto, siano poco praticati dagli altri membri di questa strana famiglia. Anche la locuzione «lavoro di cura» mi è sempre piaciuta poco – a meno che non intendiamo la parola «lavoro» in un senso profondamente psicoanalitico –, anche se ne capisco ovviamente il senso. Controllo che mangi e che beva, facendo le razioni e cucinandole quando ho tempo di farlo, perché altrimenti fa la furba e mangia solo dolci; le faccio fare ginnastica affinché non si impigrisca, cerco di colmare l’assenza del mondo esterno quando, per un qualche motivo, non possiamo farla uscire. Oppure veglio, a distanza, quando deve fare cose a cui non vuole che io assista, perché ha uno schema di pudori tutto suo che è giusto rispettare; ma anche io faccio il furbo, per cui mi nascondo e controllo che tutto vada come deve andare, mimetizzato nell’appendiabiti. Col tempo sono giunto alla conclusione che questa cura è molto probabilmente un sostegno più a me che a lei, un farsi bene a vicenda, forse c’è anche un qualcosa di egoistico nel volermela godere in quelli che saranno inevitabilmente i suoi ultimi anni.
Per questo faccio fatica a capire il mondo fuori dalle mie finestre. Un mondo in cui gli anziani, all’inizio della diffusione del Covid-19, erano quelli che «tanto muoiono solo i vecchi», mentre oggi sono i «vecchi di merda che continuano ad andare fuori». C’è, evidentemente, una colpa nell’essere delle vecchie a cui si scombina il mondo e che si trovano di fronte a una realtà completamente estranea ai soliti rituali. C’è evidentemente un peccato originale che io, però, proprio non posso né voglio capire.
È da un paio di giorni che la tosse è in miglioramento e oggi praticamente nemmeno un colpo. Da domani penso che tornerò a strapazzare la nonna, con le dovute precauzioni.

 

DIARIO DI BORDO – PRIMA SETTIMANA

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