DISABILITÀ E STEREOTIPI

di Angelo Errani

Parte I – Normalità e Differenze: ma che cos’è la normalità?

Parte II – Disabili, handicappati, portatori di handicap, in situazione di handicap, diversamente abili. Che cosa stiamo dicendo?

Parte III – La rappresentazione della disabilità. Antichità e Medio Evo

Le persone disabili quale condizione hanno vissuto? Che ruolo hanno avuto? Chi hanno incontrato? Per capire un aspetto sociale, occorre collocarlo nello spazio e nel tempo. E la prima sensazione che ho provato ricercando immagini e testimonianze scritte che documentassero la presenza delle persone disabili nella storia è stata quella di incontrare più assenze che presenze, silenzi più che voci. Siamo di fronte ad una di quelle rimozioni che Jacques Le Goff collega a coloro che vengono considerati di poco valore, quando – aggiungiamo noi – non un problema e/o una disgrazia. I silenzi sono dunque assai significativi, perché specchio di indifferenze e di paure che si vorrebbero rimuovere, cancellando le tracce di presenze indesiderate. Incontrando il silenzio, non dobbiamo neppure però sottovalutare il rischio di volerlo riempire, proiettando su di esso i nostri paradigmi culturali e investendolo delle nostre aspettative.

Limitando la ricerca prevalentemente ai documenti iconografici, potremmo pensare che il rischio del pregiudizio sia meno serio, visto che le immagini, a differenza delle parole che indicano gli oggetti per convenzione, raccontano attraverso l’analogia e, questa, mantiene sempre una relazione con la realtà. Ma è bene ricordare che anche un testo iconografico non è mai neutro né universale, anche se la relazione analogica con il reale non può mai venir meno.

Le antiche civiltà del Mediterraneo

Particolare della Stele egizia di Rem (1400 a.C., Glyptotek, Copenhagen). 

È, forse, la prima immagine di una persona disabile. Rappresenta un personaggio che prende parte a un corteo funebre. Si tratta probabilmente di un servo, il cui corpo presenta i segni evidenti di un esito da poliomielite. Il costume di far entrare nella tomba del defunto uomini e animali che lo avevano accompagnato nella vita è evidentemente ormai stato superato, l’accompagnamento verso l’al di là è diventato simbolico e viene affidato agli scultori e ai pittori che nella lingua egizia venivano chiamati: coloro che mantengono in vita. La ricerca di fedeltà dell’immagine al personaggio reale, che fu il criterio a cui gli artisti egiziani erano tenuti, ci consente di ottenere informazioni preziose: la dignità di partecipare al corteo e le proporzioni del corpo, equivalente a quelle degli altri personaggi, proporzioni che, nella raffigurazione egiziana, indicano il peso sociale del soggetto raffigurato, suggerisce una condizione di integrazione di quella persona nella comunità d’appartenenza.

La Grecia: folli e veggenti, i poeti degli dei

Nelle arti figurative greche gli autori non seguono più il criterio della corrispondenza con il reale, non rappresentano più ciò che vedono, ma ciò che sanno. E la diversità dei personaggi rappresentati propone immagini di segno opposto, ma compresenti. Disponiamo di documentazioni in cui i disabili non vengono considerati compiutamente umani. Nella cultura greca c’è infatti corrispondenza fra la bellezza e la superiorità etica e fra la deformità e l’indegnità, una corrispondenza che nella lingua greca viene espressa con il termine kalokagathia. Contemporaneamente, troviamo testimonianze in cui, personaggi femminili e maschili con disabilità, vengono rappresentati come soggetti di quel territorio intermedio collocato fra dei e uomini, superando, di questi ultimi, la fragilità delle condizioni e, in alcuni casi, la mortalità. 

Minotauro, ceramica V sec. a.C.

Di fronte alla follia, per esempio, costituendo essa una diversità talmente radicale da non riuscire ad essere inserita in un quadro di riferimento concettuale comprensibile, i Greci si sentirono autorizzati a ricorrere all’altra possibilità di diversità in loro possesso: l’assimilazione con il soprannaturale. Omero: cieco alla luce, il poeta vedrà però ciò che è invisibile agli umani, ciò che è accaduto nella notte dei tempi e ciò che accadrà nel futuro, quel tempo che è precluso ai mortali. Così Calcante e Cassandra: solo al folle è consentita quella visione che i greci chiamavano epopteia, che significa guardare al di sopra, essere dotati di potenzialità profetiche, anche se il rapporto col dio esigerà il sacrificio dell’io.

Contemporaneamente alle due logiche, la disabilità come segno di inferiorità o di soprannaturalità, si affermò progressivamente anche la ricerca di una conoscenza che facesse riferimento alla ragione. Già Erodoto invitava a non considerare l’essere fuori di sé come conseguenza del male sacro ma di una causa materiale:

«Gli Argivi dicono che per queste ragioni Cleomene impazzì e morì miseramente; gli Spartani invece dicono che Cleomene non impazzì per opera di nessuna divinità, ma che, per essere vissuto in familiarità con gli Sciti era divenuto bevitore di vino puro, e per questo divenne pazzo». (Erodoto) 

«Per nulla – mi sembra – è  più divino delle altre malattie o più sacro […]gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza e stupore […] E tale carattere divino viene confermato per le difficoltà che essi hanno a comprenderle […]. Il cervello è l’organo che ci permette di pensare, di vedere e di intendere, di distinguere il bello e il laido, il buono e il cattivo, ciò che è piacevole e ciò che non lo è. […] Ed è sempre nel cervello che risiedono la follia e il delirio, le paure che ci assalgono spesso di notte, ma talora anche di giorno: è lì che si trova la ragione delle insonnie, dei doveri dimenticati e delle stranezze. Tutto ciò trae la sua origine nelle malattie del cervello […]». (Ippocrate)

Infirmitas e caritas nella società medioevale

Jacques Le Goff indica nella cultura del corpo uno dei riferimenti maggiormente significativi del cambiamento culturale collegato al diffondersi del cristianesimo. Mentre il pensiero dell’antichità non concepiva che spirito e virtù potessero esistere al di fuori della mediazione del corpo, nel nuovo quadro concettuale dell’occidente cristiano il corpo diviene ergastulum, (prigione per schiavi) dell’anima. Sarà soprattutto il corpo femminile a venir connotato negativamente, in seguito alla rielaborazione medievale del peccato originale, che trasformò in trasgressione sessuale la sfida intellettuale a Dio della tradizione biblica. Il corpo della donna diverrà luogo di elezione del demonio e la lebbra, che rappresentava la malattia simbolica per eccellenza, colpirà i nati da donne che abbiano avuto rapporti sessuali durante il periodo mestruale.

«Insomma, tutti coloro che sono lebbrosi nascono di solito non da uomini colti che conservano la castità nei giorni proibiti e nelle festività, ma soprattutto dai rustici che non conoscono la continenza». (Cesario di Arles, sermone, prima metà del VI secolo) 

Nel pensiero medioevale l’opposizione fra salute e malattia diventa un riferimento organizzatore, non limitato al piano biologico o psicologico, ma esteso al piano morale e perfino a quello sociale: il povero si identificherà con l’infermo, il brutto con il deforme, mentre il nobile sarà bello e ben fatto.

Le comunità medioevali sono comunità chiuse, fondate sull’appartenenza per nascita e interessate a riprodursi senza cambiamenti. È ovvio che non potranno considerare la diversità che come peccato contro il proprio ordine, presunto sacro. Di conseguenza, la diversità doveva essere sottolineata, resa visibile attraverso segni infamanti, come la rotella per gli ebrei e il crepitacolo per i lebbrosi. 

Miniatura XIV secolo d.C., Lebbroso con crepitacolo

La diversità doveva inoltre essere emarginata dalla comunità e spesso punita, attraverso rituali come il rogo per gli eretici ed i folli ritenuti indemoniati, e come la sepoltura, per fortuna spesso solo simbolica, per i lebbrosi.  

Cappella degli Scrovegni, Padova, Giotto, 1267-1337, La stoltezza

E, se l’infermità è in relazione simmetrica con il peccato, un suo superamento richiederà necessariamente l’intervento del divino, grazie alla mediazione dello specialista della comunicazione fra terra e cielo: il santo. 

Assisi, Museo del Convento di San Francesco, Miracoli, tempera su tavola

 

Per tutto il medioevo, con la paura e l’esclusione della diversità, convive anche il concetto di infirmitas come promotrice di caritas. Le persone disabili che, assieme ai poveri, affollavano mendicando gli spazi sociali delle città, in particolare i sagrati delle chiese, incarnano la sofferenza e l’espiazione e ricordano alle comunità l’obbligo morale della carità, grazie alla quale l’uomo medievale riteneva di acquisire meriti per la vita eterna.

Inoltre, in connessione con i cambiamenti socio-economici che, a partire dal XII secolo, interessarono le città medioevali, il corpo cominciò ad assumere valori maggiormente positivi. La figura del medico cominciò a distinguersi da quella del religioso. E sarà sorprendentemente una malattia, la peste, che favorirà un’incrinatura della fusione di anima e corpo, fra bene e male, ed un approccio più terapeutico. Essendo infatti la peste molto contagiosa, questa colpiva indistintamente laici e religiosi, cittadini e villici, buoni e cattivi. La nuova emergenza sanitaria comportò dunque un progressivo cambiamento concettuale nei confronti delle infermità, che non verranno progressivamente più addebitate a motivi soprannaturali.

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