È DAI MOMENTI DIFFICILI CHE POSSIAMO IMPARARE DI PIÙ.

di Angelo Errani

Ciò che emerge come dato indiscutibile di quest’anno caratterizzato dal dramma della pandemia è la dilatazione delle disuguaglianze, sia a livello globale che, ovviamente, anche nella nostra comunità. 

Che cosa è avvenuto? È successo che le differenze che riguardano una pluralità di condizioni, anagrafiche, di genere, di salute, economiche e sociali, si sono enormemente approfondite e si sono tradotte in crescenti disuguaglianze. 

Chi ha sofferto e continua a soffrire di più sono coloro che si sono trovati a subire l’aggressione del contagio imprigionati in contesti senza possibilità di salvezza o privati delle relazioni e del conforto di un sorriso o di una carezza: le persone anziane ospiti delle Rsa. 

«Tanto muoiono solo i vecchi».

Quante volte ci è capitato di ascoltare queste parole o, seppur formulate in modo meno esplicito, di sentirle riproposte anche in dichiarazioni di personalità istituzionali e dei media. Ricordiamo tutti quel tweet scritto, anche se seguito da rettifica, dal presidente della Regione Liguria Giovanni Toti: 

Per quanto ci addolori ogni singola vittima del COVID, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri fra i 25 decessi in Liguria, 22 erano pazienti molto anziani, persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese. (01/11/2020)

In un recente report, Amnesty International documenta che nel nostro paese un anziano su cinque, deceduto per Covid-19, era ospite di in una delle 7.500 Rsa del paese. Il dato ci fa capire che l’istituzionalizzazione di un particolare gruppo di individui, oltre a ridurre l’identità delle persone a categoria e a privarle dei rispettivi contesti e relazioni di vita, in presenza di un contagio, diventa una condizione ad altissimo rischio, in cui viene meno perfino la possibilità di morire con il conforto di un ultimo saluto.

Tanti anziani sono morti e moltissimi sono quelli che, come viene indicato in una ricerca della Società Italiana di Neurologia, pubblicata su Frontiers in Psychiatry, in seguito alla chiusura delle relazioni, hanno subito un decadimento gravissimo e vissuto sconforti e paura di essere stati abbandonati. 

Mentre, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, l’istituzionalizzazione degli orfani, come quella delle persone disabili e dei malati psichiatrici è stata progressivamente superata – essendosi affermata socialmente l’idea che fosse intollerabile e disumano sottrarre tante vite ai contesti di vita comuni – per le persone anziane si è progressivamente determinato un processo opposto, come se, arrivati a una certa età, il diritto a continuare ad abitare nella propria casa e a relazionarsi con il tessuto sociale della propria comunità non incidesse sulla qualità delle loro vite. Occorre riconoscere che è venuto progressivamente meno il valore della vita di chi non è più produttivo, e, come per le cose vecchie c’è la discarica, così per gli anziani, pur con motivazioni di protezione e di cura, c’è spesso il confinamento nell’istituzionalizzazione.     

Di fronte al dramma di tante persone che attraverso i notiziari quotidiani abbiamo conosciuto come numeri, mentre nella realtà si tratta di madri, di padri, di mogli, di mariti e di amici di tanti di noi, la Commissione per la Riforma dell’Assistenza agli Anziani, presieduta da Vincenzo Paglia,  pubblica un appello in cui si chiede al governo di spostare «[…] l’asse dell’assistenza residenziale alle case degli anziani, vero luogo di prevenzione di cura e di vita dei nostri vecchi. Si deve traversare una volta per tutte quella sottile ma profondissima linea di demarcazione che vorrebbe i nostri anziani espulsi dal tessuto sociale, familiare e domestico, per concentrarli in quei “non luoghi” rappresentati dagli istituti, secondo un malinteso senso della loro custodia e tutela che tanti danni ha fatto finora […]». (La Repubblica, 18/03/2021, pag. 26)  

Negli ultimi decenni, avendo vissuto un appiattimento diffuso su comportamenti sociali deresponsabilizzanti e addomesticati ai valori del consumismo, abbiamo assistito, senza assolutamente immaginarne le conseguenze, alla riduzione della medicina e dei servizi territoriali, giustificata da esigenze di bilancio e dalla logica dell’aziendalizzazione dei servizi. Dimenticando, come avverte Martha Nussbaum, che fragilità e vulnerabilità, presenti nella dipendenza che tutti sperimentiamo in qualche tappa della vita, accompagnano ogni essere umano.

È sulla base di queste considerazioni che la Commissione per la Riforma dell’Assistenza agli Anziani invita Governo e istituzioni a non perdere l’occasione, offerta dai finanziamenti messi a disposizione dal Recovery Plan, di un cambiamento di prospettiva, che sul piano operativo dovrà tradursi in:

  • Una cabina di regia che curi in ogni territorio la messa in rete di consulenze, dai assistenza, di sostegni specialistici e del volontariato di prossimità.
  • Forme di assistenza medico-infermieristica vicina alle residenze e al tessuto sociale delle persone anziane
  • Domotica e tecnologie da adattare ai bisogni di mobilità e di autonomia nella vita quotidiana.
  • Promozione di relazioni di vicinato coinvolgendo i centri sociali, le parrocchie e le associazioni del territorio. 

Negli ultimi decenni abbiamo avuto l’opportunità di verificare come sia cambiata, con la chiusura dei manicomi e degli istituti, la qualità della vita delle persone disabili e anche di scoprire che il sostegno territoriale si è verificato assai più vantaggioso anche sul piano economico. Oggi, di fronte al dramma di tanta sofferenza dei nostri anziani, dobbiamo passare dalla violenza dell’esclusione a una logica di integrazione nelle comunità d’appartenenza, promuovendo modalità di sostegno diffuso. 

Quello che possiamo imparare è che la ricerca dedicata alla cura della fragilità dell’ambiente e di noi umani non costituisce più solo un tema suggerito dall’etica e dalla ragione ma che si tratta di un imperativo imposto dalla necessità.

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