tratto dal libro di Maurizio Casali MO I TIRA A TE – RACCONTI DI GUERRA E DI FAMIGLIA
‘U jera on ch’il ciaméva Fiamet. (C’era uno che lo chiamavano Fiammetta).
Il soprannome gli derivava dalla sua abilità con gli esplosivi, era l’artificiere della banda, e aveva una tale confidenza con le bombe che, addirittura, preparava e lavorava esplosivi con la sigaretta in bocca. Gli altri lo consideravano un po’ matto e quando gli vedevano accendere una sigaretta, con gli esplosivi in mano, si tenevano a debita distanza, ma come artificiere godeva della massima stima.
Era stato deciso, in accordo con il comando della ventottesima, di fare un attentato alla sede del Fascio di Alfonsine, un attentato molto distruttivo, che doveva avvenire durante una riunione del partito.
Su un tavolo la bomba è pronta, una bomba che somiglia a quelle degli anarchici di inizio secolo, una palla con una miccia.
I partigiani partono e presto si dividono in due gruppi, uno, capitanato da Fiamet, ha con sé la bomba e una lunga scala da pagliaio, le scale da pagliaio in Romagna sono alte anche cinque metri e sono strette, strette.
Il gruppo arriva davanti alla casa del Fascio, è sera ed è già buio, non ci sono guardie davanti, i convenuti alla riunione, sono tutti arrivati, il portone per sicurezza è chiuso dall’interno.
La sala riunioni dà sul lato, ed ha una grande finestra, i partigiani, guardinghi e silenziosi, si fanno sotto la finestra, appoggiano la scala alla parete, la scala arriva poco sotto la finestra.
Altri si posizionano ai lati del palazzo, di guardia, Fiamet è pronto, controlla l’orologio, ad una data ora l’altro gruppo deve attaccare una postazione della milizia repubblichina, che monta la guardia al ponte che attraversa in fiume Senio, sulla Reale, proprio dalla parte della finestra a qualche centinaio di metri.
L’idea è quella di accendere la miccia poco prima che inizi la sparatoria, così che i convenuti alla riunione, si avvicinino alla finestra per vedere che succede, ed essere investiti in pieno dall’esplosione.
La bomba è poco potente, non basta farla esplodere alla finestra.
Mancano pochi minuti, la tensione sale, i partigiani si guardano, è ora, Fiamet sale piano, piano sulla scala, da sotto solleva la bomba e la mette sul davanzale, attento a non fare il minimo rumore, scende un paio di gradini e accende la miccia, poi scende piano, è tutto calcolato.
Arrivato a terra si accorge che la miccia s’è spenta, l’umidità delle valli di Comacchio, dove stanno nascosti, non aiuta, Fiamet e gli altri si guardano, forse sono ancora in tempo.
Fiamet sale rapido e silenzioso riaccende la miccia e scende, arrivato a terra, guarda su, la miccia s’è spenta ancora, maledetta umidità, Fiamet risale velocissimo e silenzioso, come più gli è possibile, per la terza volta riaccende la miccia e quasi vola giù, guarda su, la miccia si è spenta ancora, non sanno che fare, momenti febbrili, si guardano, indecisi… gli spari, di diversi mitra li tolgono dall’imbarazzo, mollano la scala e via di corsa a rotta di collo imprecando come dannati.
L’altro gruppo, nel frattempo, arrivato nei pressi della postazione repubblichina, si ripara dietro un muretto che fa al caso loro, guardano gli orologi e aspettano l’ora stabilita. Al momento giusto il comandante ordina di far fuoco, sparano finché dalla postazione non arriva una rabbiosa reazione. Una mitragliatrice e diversi mitra sparano in tutte le direzioni, un po’ a casaccio.
I partigiani riparati dal muretto, quatti, quatti, si danno alla fuga, mentre sentono le raffiche dei repubblichini, sono ormai lontani e continuano a sentir sparare, finché la lontananza non disperde il fragore degli spari.
Nella casa del Fascio la riunione, che procede noiosa, viene interrotta bruscamente dal rumore delle raffiche di mitra, che provengono dalla direzione del ponte, ben sanno che c’è un posto di guardia fisso.
Si alzano allarmati e curiosi e si precipitano alla finestra, si accalcano, cercano di vedere nel buio della notte. Le notti della seconda guerra mondiale sono molto buie, figurarsi in un paese come Alfonsine. Guardano, ma non vedono nulla, poi qualcuno la nota, la vede, è li sul davanzale, è lì per loro, per loro ed è una bomba, urlano tutti: UNA BOMBA!! UNA BOMBA!! Cercano di fuggire, fuggire dove possono alcuni si buttano a terra, altri inciampano e cadono rovinosamente.
Lontano gli spari si son fatti più intensi, ma la bomba tace, non esplode, pian piano i gerarchi si ricompongono, quelli a terra si rialzano, qualcuno aiuta i più anziani, si guardano, forse imbarazzati.
Viene ritrovata la bomba inesplosa, la scala usata dai “banditi”, così chiamano i partigiani, fascisti e nazisti.
La mattina dopo arrivano anche i tedeschi, perché il ponte, per ragioni logistiche, a loro interessa più di Alfonsine stessa.
Fanno una piccola ispezione e notano subito che, dietro un muretto, ci sono una ventina di bossoli – quelli dei “banditi” – ma sotto la postazione della milizia ci sono migliaia di bossoli.
Si narra che il maggiore tedesco che guidava l’indagine fece delle urla che si sentivano a centinaia di metri di distanza e, quando l’ufficiale della milizia repubblichina, provò a dirgli che avevano subìto e respinto, dopo una furiosa battaglia, un violento attacco da parte di un consistente gruppo di “banditi”, i tedeschi se ne andarono infuriati per l‘inettitudine dei loro alleati, che avevano sprecato, sparando nel nulla migliaia di proiettili.
Quella fu l’ultima volta che si fece una riunione del partito fascista ad Alfonsine, il paese non fu più considerato un luogo sicuro.
Fiamet continuò per tutta la durata della guerra a seminare bombe, le più esplosero, alcune no.
Quando la guerra finì andò a fare, com’era quasi logico, per uno come lui, lo sminatore e trovò tante mine, finché un malaugurato giorno fece un passo, e dato che era un artificiere esperto non gli sfuggì il “clic” dell’innesco, si fermò rimase immobile, disse agli altri sminatori di allontanarsi e quando vide che erano al sicuro fece un altro passo…