NEL RACCONTO DEL NIPOTE ANDREA A METRO-POLIS
di Andrea Vialli
8 settembre 1943. In quello che rimane dell’Europa la voce del maresciallo Badoglio risuona in tutte le radio. L’armistizio della potenza più debole dell’Asse, l’Italia, è reso ufficiale, ma all’esercito italiano non vengono consegnate istruzioni precise su come comportarsi con i nazisti, gli alleati di poche ore prima. È il caos. Del regio esercito circa un milione di soldati si dà alla macchia, un altro milione è catturato con la promessa, subito disattesa, di un ritorno sicuro in patria. Pochissime le adesioni alla Wehrmacht, eroiche le resistenze di alcune divisioni (a Cefalonia, per ricordarne una delle più celebri), moltissimi i soldati e gli ufficiali italiani che saranno deportati nei campi di concentramento. Sarà loro negata la definizione di prigionieri di guerra e gli sarà cucita addosso una dicitura che sfugge alla Convenzione di Ginevra (e anche all’assistenza della Croce Rossa): IMI, ovvero Internati Militari Italiani.
Tra loro si ricordano Alessandro Natta, Giovanni Guareschi, Gianrico Tedeschi, Giuseppe Novello e tanti altri che presero parte ad una resistenza senz’armi al nazifascismo. Persone ridotte a ombre di loro stessi, pur di non aderire allo stato fantoccio della Repubblica di Salò. Uomini che scelsero la prigionia in nome di ideali più alti, che le armi del Lager non riuscirono a scalfire. Tra di loro c’era anche mio nonno, Vittorio Vialli.
Il suo è un punto di vista privilegiato. Vialli ha lasciato un documento costituito da più di quattrocento fotografie, scattate clandestinamente nei cinque Lager che attraversò tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. Si servì di due macchine fotografiche che aveva usato anche sul canale di Corinto, dove svolgeva delle perizie geologiche. Quel compito apparentemente complementare gli diede gli strumenti per avere una ragione di vita in più: una Zeiss Super Ikonta e una Leika, con cui scattò la maggior parte delle foto che sono oggi in nostro possesso, visibili nell’archivio digitale dell’Istituto Parri di Bologna.
La vita del Lager era scandita dal ricatto della fame, della sporcizia e delle malattie; dalla violenza ingiustificata e sommaria; dalla ripetitività di appuntamenti insensati, come gli appelli all’aperto con qualunque condizione meteorologica. Ma c’era un elemento in più che abbatteva le condizioni psicofisiche degli internati: la promessa che tutto questo sarebbe finito con una firma, che avrebbe riportato gli uomini alle famiglie lontane, in cambio del ritorno alla fede fascista. Pane e calore umano, a patto di tornare complici di una forza criminale ed efferata.
Come detto in precedenza, invece di cedere gli IMI scelsero in buona parte di rimanere nei Lager, in una condizione di sospensione tra vita di stenti e morte incombente. I commilitoni di mio nonno iniziarono infatti a sperimentare una nuova coscienza che il fascismo, con la sua propaganda a senso unico, aveva tentato ad ogni costo di atrofizzare. Una coscienza etica, prima che politica, che partiva dall’esperienza di una guerra spietata: una volta sperimentato quel tipo di scontro, che mirava all’annientamento del nemico, la maggioranza non voleva più saperne. Il consenso al fascismo si stava sgretolando.
Scorrendo le immagini di Ho scelto la prigionia, il volume ristampato di recente che raccoglie gli scatti di mio nonno, si possono intravedere la nascita, la metamorfosi e la maturazione di questa coscienza. Dall’inganno a Istmia (Corinto), che ha portato gli italiani a consegnare le armi agli ex alleati, passando per la denuncia delle violenze ingiustificate dei nazisti, fino agli scatti che ritraggono i soldati inglesi che liberano l’ultimo Lager, Vittorio Vialli ha impresso sulla pellicola la memoria della sua scelta. Una volta conclusa la prigionia, aveva perso quasi trenta chili ed era gravemente malato. Fu curato in Germania, si riprese e, a fine agosto 1945, riuscì a tornare in Italia.
Mi sono chiesto spesso cosa lo abbia davvero tenuto in vita. Mio padre Bruno, il testimone a me più vicino e custode, insieme a mia zia Silvana, della memoria di mio nonno, mi ha sempre indicato tre fattori principali. Il primo è questa documentazione fotografica. Il secondo la fede al giuramento prestato al re, e non a Mussolini. In altre parole: fede all’idea di Italia, non all’Italia fascista. Il terzo, ma non per importanza, l’ironia con cui ritrovare uno spiraglio di umanità: la macchina fotografica è sempre un occhio indiscreto, che in quel caso sfidò le regole disumane dei campi di concentramento nazisti e si prese gioco del loro sistema di morte.
La storia degli Internati Militari Italiani è rimasta sommersa per molti anni, quasi rimossa dall’immaginario comune della Repubblica. Non è questo il luogo in cui ricostruire la storia di questa riscoperta, né di creare delle assurde gerarchie con la Resistenza partigiana. Preferisco concludere con le parole di mio nonno, attraverso l’explicit della prefazione alla prima edizione di Ho scelto la prigionia nel 1975.
“Pur non essendo stata la più dura, essa1 rimane non di meno un capitolo molto triste da iscrivere nella storia contemporanea. Una vicenda da non dimenticare: non per sollecitare o rinfocolare l’odio, sia chiaro, ma per fare umanamente comprendere, a chi dall’esperienza altrui vuole imparare qualcosa, i guai che possono nascere dall’intolleranza, dal fanatismo e dalla smodata demagogia. Speriamo bene”.
- L’esperienza degli IMI (nda) ↩︎