di Il club del libro
Il club del libro di Metro-Polis, che sarà un viaggio nei viaggi possibili, è iniziato dal Barone Rampante di Italo Calvino. Uscito nel 1957, e secondo capitolo della Trilogia degli antenati, questo libro racconta la storia di Cosimo, giovane e nobile rampollo, e delle sue radicali scelte di vita. All’incontro del 17 febbraio, sì è partiti dal principio:
«Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai si era vista disubbidienza più grave».
L’incipit di questo romanzo dice già molto dei temi che verranno affrontati. La data proietta subito il lettore verso un punto preciso del tempo, stabile, traccia del neorealismo tipico di Calvino. Ci sono chiare connotazioni anche spaziali e sensoriali, è tutto tangibile. E infine giunge l’atto di volontà che caratterizza l’opera scelta dal club a simbolo del viaggio verso la libertà. Quel «Non voglio!» ritornerà a più riprese nel racconto ed è emerso anche in altri passi che i partecipanti al club hanno deciso di riportare. Ad esempio durante il primo incontro con la piccola Viola che cerca di fare scendere Cosimo dagli alberi su cui è salito per non scenderne più. La minaccia della giovane è insita nella sfida che lancia al rampante, ma lui non si lascia ingannare:
«- Certo, ma se caschi, se caschi diventi cenere e il vento ti porta via.
– Tutte storie. Io non scendo a terra perché non voglio.»
Da un punto di vista fisico, i limiti di Cosimo rimangono ai margini di quel mondo in cui le fronde e i rami si solleticano senza sosta, in una sorta di enorme e infinita foresta. Ma esistono altri limiti, legati alla mente e alla psiche; limiti che il giovane barone intravede nelle distese che non può raggiungere e per i quali calvino getta sulla pagina parole molto chiare:
«Ottimo Massimo non tornava più. Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita».
Si può dunque essere liberi se esistono poi altri limiti? O essere liberi è una strada, un percorso, che parte dalla ribellione alle convenzioni, a quel piatto di lumache, al toccare terra? Sarebbe in quel caso non uno stato raggiunto, ma il percorso stesso che inquieto si staglia all’orizzonte ancora da affrontare, un giorno dopo l’altro.
Sono sembrate molte anche le implicazioni politiche di questa fiaba moderna. Racconta infatti di tempi che cambiano e del modo di affrontarli, quasi che le mosse di Cosimo siano una sorta di manuale da seguire. Anche se lo stesso Biagio, il narratore, ha fatto una scelta del tutto diversa, non è riuscito a seguire il fratello nella ribellione. Questa dicotomia tra i due rampolli ricorda anche quel filo che intercorre tra l’intellettuale impegnato e non, quasi a dire che Calvino stesso, nel non voler troppo lasciarsi andare all’empatia per Cosimo, abbia scelto di parlare per bocca di Biagio.
Tanti sono stati i temi e le suggestioni, in uno spirito di conviviale scambio e ricerca, tentando di innalzarci dal suolo, sollevando gli sguardi perché, come racconta Biagio: «Se si vuole guardare bene la terra bisogna vederla a debita distanza».