Questa rubrica vorrebbe occuparsi dei libri che rimangono, cioè di quelli che hanno molto da dire, qualcosa di essenziale da trasmettere aldilà degli anni, delle generazioni, dei pensieri, dei cambiamenti sociali e politici. In sostanza, dei cosiddetti ‘classici’ che, definiti così, sono antipatici a prescindere perché ricordano la scuola, la prof. arcigna, i detestati Promessi sposi e tutte quelle cose che avremmo preferito evitare.
Invece quelli che vengono classificati come classici, in genere, sono quei testi che, una volta letti, non puoi scordare perché evocano una condizione umana che persiste nonostante la distanza temporale.
Durante quest’anno (2015) si sono ricordati due episodi fondamentali della storia italiana (e non solo): il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale e i 70 anni della fine della Seconda e, per la maggior parte di noi, questi conflitti sono una nozione storica, una commemorazione, una fotografia sbiadita su una pagina web; per i più ‘fortunati’ –mi viene da dire- il ricordo di genitori, nonni, bisnonni.
Dico questo perché la Guerra, in quanto tale, è un concetto universale ma astratto e, se le ‘ragioni’ che la scatenano possono essere diverse, l’effetto è uguale.
Mi sembra quindi giusto inaugurare questa rubrica con un classico purtroppo trascurato sia dalla scuola che dalla società: La Storia di Elsa Morante (1912- 1985), romanzo edito nel 1974 e considerato come il più grande successo editoriale della scrittrice. Scrittrice che, personalmente, considero uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano.
Nata a Roma nel 1912 da madre ebrea, sposò nel 1941 Alberto Moravia, scrittore che conobbe maggior fortuna commerciale anche grazie alla sua inesauribile produttività e ad una maggiore esposizione mediatica; erano anni, infatti, in cui i pensieri prendevano la forma di slogan e uno degli assunti preferiti era che ‘la cultura è di sinistra’, anche se a dirlo era un analfabeta. Moravia era uomo mondano, notoriamente schierato dal punto di vista politico; intellettuale, giornalista, era un grande viaggiatore, frequentava i salotti dell’ ‘intellighenzia’ di sinistra, i premi letterari, non perdeva occasione per ‘dire la sua’.
La Morante, al contrario, era una donna che non si esponeva ma, anzi, si chiudeva in casa per anni a scrivere; sempre schiva, pare -dopo il divorzio- perfino scorbutica, isolata nella sua casa piena di carta e di gatti. Insomma, diremmo oggi, non era ‘trendy’ né ‘social’. Quando ero molto giovane conobbi una ragazza che era stata ‘fidanzata’ con suo nipote –fratello di Laura Morante, la bravissima attrice- e mi disse che difficilmente apriva la porta a chi andava a trovarla: per lei la creatività necessitava di solitudine per esprimere qualcosa di grandioso.
E, in effetti -scusate il confronto, ma viene spontaneo- Moravia, dopo Gli Indifferenti –scritto quando era giovanissimo, a 22 anni- ha pubblicato moltissimo ma davvero poche cose notevoli, manovrando la propria creatività quasi sempre intorno al tormentone ‘Il Complesso d’Edipo e il mio pistolino’, argomento che, seppure di moda all’epoca, non è mai stato propriamente esaltante per la maggioranza degli esseri umani che –sembra- abbiano anche altri spunti su cui speculare (almeno si spera).
Elsa Morante, al contrario, ha pubblicato pochissimo e scriveva con una cifra peculiare dei grandi scrittori: sapeva adattare il linguaggio, l’ambientazione e lo stile a seconda di quel che voleva esprimere. La parola, attraverso la sua mente, diveniva creta, che riusciva a modellare a seconda dell’immagine che voleva rappresentare. Ha scritto quasi solo capolavori e La Storia è uno di questi: pubblicato nel 1974, riduce lo iato che divide le decisioni dei ‘Grandi’ dalle conseguenze sulle vite dei ‘Piccoli’, la cesura che –nella mente di tutti noi- impedisce di capire e vivere che quei fatti descritti nei libri di storia nascondono, tra migliaia di pieghe, le sofferenze di milioni di persone.
La freddezza cronologica dei fatti storici, descritti quasi asetticamente, si scontra con l’alternanza del racconto della vita quotidiana dei personaggi del romanzo, inventati ma possibili, dolorosamente credibili.
La Guerra, che per la maggior parte di noi è un concetto astratto come il Risiko, assume valenza reale attraverso la vita di Ida Ramundo, maestra elementare vedova con un figlio quindicenne ‘difficile’. Questa donna fragile e smarrita, durante un giorno di gennaio del 1941, in una strada di Roma, si imbatte in un ragazzo, un soldato tedesco pieno di dolore e testosterone, che la violenta e la mette incinta. Da questo evento si dipanano tutto il dolore e l’amore che ‘la gente piccola’ continua a provare in mezzo alle bombe, alla fame, alla disperazione.
Soprattutto questa è la Storia, quel concetto astratto che, sull’edizione originale, una fascetta definiva ‘Uno scandalo che dura da diecimila anni’.
Danila Faenza