RICORDI DI SCUOLA

Nota di Angelo Errani:

In questi giorni, in cui il tempo riesce forse a farci percepire quanto sia importante, ho avuto l’opportunità di ritrovare piccole/grandi cose dimenticate nei cassetti. Ciò che potete leggere in queste pagine sono ricordi di scuola di una brava maestra. Andavo a trovarla settimanalmente quando, ormai molto anziana, non usciva più dalla sua camera e, in una di quelle occasioni, le chiesi di scrivere per noi i suoi ricordi di scuola. Come era sua abitudine, fece i compiti. Si chiamava Maria Galanti. Era mia madre.

di Maria Galanti

Giovanissima, appena diplomata – avevo diciassette anni – vinsi un concorso indetto da un ente, L’Umanitaria, uno di quei tanti con i quali il fascismo tentava di omologare le popolazioni di quelle che definiva come «terre irredente», cioè i territori della Dalmazia. Fui destinata in Istria, in provincia di Pola. Antignana (in croato Tinjan) era il comune, Villa Ieseni (in croato Jezen) era il villaggio in cui era stata istituita la scuola. Era una zona carsica, posta su un altopiano. Dai sassi bianchi spuntavano cespugli di rovi che venivano brucati dalle capre, mentre le pecore trovavano erba fresca lungo le rive del torrente e delle scarpate dove si erano formati dei piccoli prati. Durante l’inverno non faceva molto freddo, poiché il luogo risentiva dell’influenza del mare che non era troppo lontano. Qui, in poche case vecchie, quasi diroccate, vivevano donne e uomini intelligenti e volonterosi. La pastorizia, le patate, poca uva non bastavano, come era stato per i loro vecchi e così, per non morir di fame, avevano imparato ad arare la terra, liberandola il più possibile dai sassi, e avevano seminato. Spighe turgide brillavano al sole di giugno e il buon pane bianco era assicurato ai loro bambini.

Non avevano accettato il «padrone» italiano, si sentivano slavi, ma accettavano l’istruzione che la scuola dava come accettavano gli strumenti per lavorare la terra. Io fui ospite in casa del capo-villaggio. La famiglia era composta dai nonni, padroni di vita e di morte di ogni componente, da uno zio gobbo custode delle pecore, da due figli con moglie e figli che frequentavano la scuola. Alla sera, all’imbrunire, ci si trovava tutti nell’ampia e fumosa cucina. I bambini si accoccolavano sotto la grande cappa del camino, la nonna cuoceva le patate sotto la cenere, il nonno intonava il rosario in lingua croata. Anch’io l’avevo imparato e lo recitavo quasi come loro. Alla mattina si trovavano attorno alla tavola e, prima di recarsi al lavoro, gli uomini bevevano un bicchiere di grappa e i bambini avevano una bella tazza di latte fumante.

Le donne erano tenute in una condizione di inferiorità dagli uomini e per provvedere all’acquisto di qualche abito e scarpe specialmente per i loro figli, facevano contrabbando di acquavite e vendevano latte e uova di nascosto dalla suocera, che era una vera aguzzina. Una delle spose giovani, quella che sapeva parlare in italiano, aveva quattro figli, era buona e intelligente, soffriva terribilmente per la malattia del maggiore, Boris, forse una tubercolosi ossea. Non era facile disporre di un medico.  Boris veniva portato all’ospedale di Pisino (Pazin in croato) in una barella, una piccola scala a pioli di legno con sopra un materasso, lungo quei sentieri carsici da due uomini, la mamma li seguiva pregando.

La scuola consisteva in una stanzina sopra una legnaia. Era molto fredda e, per riscaldarla un po’, i bambini portavano piccole fascine e ceppi per accendere la stufa di ghisa. Erano quaranta alunni che provenivano anche dai villaggi vicini. Non tutti avevano zoccoli o scarpe ai piedi. La frequenza, specialmente nella buona stagione, era incostante. Quell’anno era il secondo da quando la scuola era stata istituita e, essendo io l’unica maestra, gli alunni erano stati divisi per gruppi di classi: gli alunni di terza, quarta e quinta frequentavano alla mattina, quelli di prima e seconda al pomeriggio. I più grandi parlavano italiano e sapevano anche esprimersi bene, i più piccoli, quelli della prima classe, imparavano da quelli di seconda. Erano bambini molto belli e buoni. I primi giorni per me furono terribili, ma non mi venne mai la tentazione di scappare, dovevo riuscire a far scuola, l’avevo tanto desiderato.

La prima volta che venne in visita il direttore, inesperto quanto me, trovò i miei ospiti che, seduti attorno al tavolo della cucina, bevevano la loro grappa. Era mattina presto e, a quell’ora, non si aspettavano visite. Il direttore non era mai stato lassù, fu una sorpresa per tutti. I padroni di casa ebbero paura di venire denunciati perché l’acquavite era monopolio di stato. Si tranquillizzarono quando io spiegai loro che il direttore era venuto per visitare la scuola. E così anche il direttore ebbe il suo bicchiere con quel liquido che ubriacava solo annusandone l’odore. Gli uomini, nel periodo della vendemmia, distillavano le vinacce con un rudimentale alambicco costruito da loro. Si trattava di un’attività che veniva fatta di nascosto, di notte, dentro un capanno.

I bambini erano intelligenti, volonterosi, abituati a una disciplina ferrea. Imparavano facilmente e mi si erano affezionati. I più grandi, quando non venivano impegnati nei lavori dei campi, rimanevano a scuola anche il pomeriggio per aiutare i piccoli.

Il maestro in quei tempi, e specialmente in quei luoghi, diventava medico, prete, consulente. La cultura tradizionale del luogo riteneva che non dovesse essere il singolo individuo a sviluppare una sua personalità, ma che si dovesse imparare a sottostare alle leggi di chi comandava, come del resto veniva considerato anche il maestro.

La mia esperienza lassù in quel piccolo paese durò solo un anno, perché, nelle ore in cui non ero a scuola, avevo avuto l’opportunità di studiare e vinsi due concorsi: uno nel Veneto e uno nelle Marche.  Scelsi il Veneto e venni assegnata alla scuola di Covolo di Lusiana, sull’altopiano di Asiago. Anche là trovai tanta miseria e fra i bambini molta meno voglia di imparare rispetto a quelli istriani.

Poi scoppiò la guerra e venni trasferita a Comacchio, in provincia di Ferrara. I quattro anni a Comacchio mi fecero conoscere le miserie più terribili: tanti bambini con tanta fame, tanti uomini in prigione per pesca di frodo nelle valli e tanti giovani ricercati e incarcerati per sottrazione al servizio militare. Non si faceva scuola, assieme alle donne e alle bambine si confezionavano calze per i soldati che già morivano a decine di migliaia in Russia. In tutti c’era tanta paura.

Ci fu poi la liberazione e finalmente quel massacro tremendo che aveva procurato tanto dolore a tutti, lasciandomi, a trentaquattro anni, vedova e con la madre di mio marito e tre bambini piccoli a cui assicurare il necessario per vivere. Eravamo anche senza casa, avendo abitato, fino alla morte di mio marito, un appartamento assegnatoci dalla Banca Popolare di Bagnacavallo presso la quale lui faceva il cassiere. Nell’ottobre 1946 ripresi il mio lavoro di insegnante nella scuola di San Potito, un piccolo paese fra Bagnacavallo e Lugo dove eravamo sfollati, ospitati in due stanze che prima della guerra venivano utilizzate come uffici di una azienda che produceva vino, dal proprietario, il signor Tino Baracca. Nel 1952, grazie alla cessione di un quinto dello stipendio, riuscii ad acquistare una casa a Lugo e, dopo qualche anno, ottenni il trasferimento alle Scuole Gardenghi nel centro storico del paese. Alla sera, dopo aver messo a letto i miei figli, passavo ore sui libri per preparare le lezioni ed evitare le critiche dei genitori degli alunni i quali, in gran parte, ritenevano che i loro figli dovessero essere sempre i più bravi. Fu difficile per me entrare in quel mondo dove il figlio dell’operaio e di chi viveva ancora nelle baracche – quante ce n’erano vicino alla stazione dei treni – non contava nulla, non si riteneva che fosse necessario che si facesse una cultura perché tanto sarebbe rimasto sempre un poveraccio. A poco a poco nella mia classe il figlio di nessuno diventò il responsabile delle ricerche. Cominciai infatti a portare fuori dalla scuola i miei scolari: li portavo al mercato, dove facevamo piccoli acquisti e imparavamo così a conoscere il valore dei soldi, a fare calcoli e poi in classe trasformavamo quell’esperienza in problemi. A casa i bambini si informavano delle spese giornaliere e ne ricavavano i concetti di spesa, ricavo e guadagno, quasi senza accorgersene. I bambini erano abilissimi a collegare le esperienze vissute con operazioni e concetti: i maschi erano generalmente più bravi nei calcoli, le femmine erano più capaci nelle descrizioni e nel capire le tante sfumature dei comportamenti delle persone. In primavera si usciva per osservare la vitalità della campagna che dava spunti per le ricerche di scienze e per il disegno. Quello a cui mi dedicavo maggiormente era che tutti si sentissero ugualmente importanti e liberi di esprimere il proprio pensiero. Non era facile vincere le perplessità di tanti genitori e le diffidenze di alcuni colleghi, poco propensi a uscire dalla scuola e convinti che servissero più i libri rispetto alle esperienze. Ricordo che anche lo studio della storia veniva collegato all’esperienza: cercavamo infatti il collegamento con i periodi storici studiati con i nomi delle strade, delle piazze e delle lapidi ancora conservate sui muri degli edifici storici. Fu così che fummo noi a scoprire la lapide romana, che venne poi collocata nella sacrestia della chiesa di San Girolamo, sul muro della recinzione di una casa in via Tomba, dove era stata usata come un qualsiasi materiale da costruzione.

La scoprimmo e la studiammo: l’epoca a cui era appartenuta, le effigi della famiglia, che vi erano scolpite. In classe poi veniva ascoltato quello che ognuno aveva scoperto e capito che diventava così patrimonio di tutti. Erano classi in cui si lavorava molto, ma si lavorava volentieri perché ciascuno si sentiva protagonista del lavoro comune. Le conoscenze partivano il più possibile dall’esperienza diretta di ciascuno: ognuno raccontava la sua esperienza, che, messa insieme alle altre veniva arricchita ed elaborata.

Indubbiamente in quegli anni era più facile uscire dalla scuola per visitarne il territorio: c’era pochissimo traffico e i bambini, avendo poche possibilità di informazione, erano curiosi, interessati. Ai bambini piace conquistare, non sanno che cosa farsene delle lezioni fatte come conferenze.

Questa scuola, dove sono rimasta vent’anni fino al raggiungimento dell’età della pensione, è stata quella in cui ho ottenuto le più belle soddisfazioni professionali. Ancor oggi, quando incontro i miei scolari di allora, diventati adulti che lavorano e genitori di nuovi bambini, ne sono soddisfatta. Sono incontri che avvengono per lo più nei pochi luoghi che frequento: al mercato o in chiesa. Spesso sono costretta a chiedere «Chi sei?», e accolgo felice una stretta di mano o un abbraccio affettuoso. Vedo che anche loro, come me, sono contenti, ricordano e ringraziano.

One thought on “RICORDI DI SCUOLA

  1. Un racconto bello e commovente. Ha il potere di aprirci squarci di storia illuminanti e potenti nella loro immediatezza e nella sensibilità raffinata e diretta.

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