Angelo Errani continua ad accompagnarci alla scoperta dei momenti e delle fasi cruciali di una corretta relazione educativa. In questa puntata indaghiamo le ragioni della svalorizzazione della memoria, che sono da collegare alla logica del mercato che ha preso il sopravvento nella cultura corrente.
di Angelo Errani
Potremmo pensare che i riti appartengano a un mondo che non c’è più, che essi avessero un significato in epoche in cui la cultura delle comunità umane, incontrando ostacoli e problemi e non disponendo di strumenti di conoscenza adeguati per farvi fronte, era costretta a rivolgersi al magico e all’immaginario.
Così confiniamo nel poetico le narrazioni, l’immane lavoro di documentazione delle generazioni che ci hanno preceduto, tramandato oralmente, con la scrittura, con le immagini, con la musica, con la preghiera: la storia dell’umanità, quella sacra e quella profana, le guerre con vittorie e sconfitte, i fasti delle corti e la vita dei contadini, l’alternarsi delle stagioni, i mestieri, i costumi, le ricchezze e le miserie, le gioie e i dolori, la vita e la morte degli uomini.
Culture vecchie? Culture morte?
«Eppure quelle lingue morte comunicano ancora messaggi di vita, ci raccontano storie di vita e di morte, come il troiano Ettore, come il greco Ulisse che ancora ci prendono e ci commuovono. Nelle pinacoteche, nei musei ci sono quadri e sculture fatte con quella lingua morta. Chi frequenta quei luoghi come deve considerare quelle opere? Come passato? Come storia? Ma se proviamo ancora emozioni, quelle narrazioni, quei quadri, che sono sì anche storia, non divengono anche presente? Addirittura attualità?»(1).
Il passato non è solo nostalgia. Pierpaolo Pasolini ne sottolineava l’importanza per il futuro con l’espressione: «la forza rivoluzionaria del passato»(2). Il passato è la memoria delle comunità, è un serbatoio di possibilità che, se interrogate, possono guidare le alternative future.
Le ragioni della svalorizzazione della memoria sono da collegare alla logica che ha preso il sopravvento nella cultura corrente. Una cultura che illude e blandisce, suggerendo che è possibile trovare nel mercato le risposte ai bisogni e al superamento degli ostacoli che incontriamo nella vita. Ne consegue che il possedere o meno gli oggetti, che con velocità crescente si avvicendano nelle offerte di consumo, rappresenta «la condizione più appassionatamente ambita o la più atrocemente sofferta»(3). Ogni volta che lungo il nostro cammino incontriamo un problema veniamo indirizzati a ricercarne la soluzione nei negozi e, quando questi non bastano, a rivolgerci alle farmacie. Le realizzazioni personali vengono pensate come destino, un destino che potrà essere favorevole o avverso, ma sempre individuale. Si tratta di una convinzione che deforma la percezione della realtà e che convince a rinunciare all’impegno e al faticoso lavoro che rende possibili le realizzazioni, illudendo che si possa vivere ottenendo immediatamente ciò che si desidera. Il presente occupa tutto lo spazio del pensiero, cancellando la necessità di imparare a interrogare il passato per ricavarne suggerimenti per progettare il futuro.
Questo sfondo culturale è il luogo ideale per far prosperare i consumi e per implementare un mondo di capricciosi e di scontenti, se privati dell’accesso alle novità del mercato. Inoltre è una cultura che, non consentendoci di distinguere fra il necessario e il superfluo, impedisce di imparare a essere padroni delle scelte e non succubi delle mode. È una cultura che è la principale causa della diffusione di un profondo malessere, che si manifesta con l’alternanza di irragionevole eccitazione e di profonda depressione, con conseguenze che vanno dal mettere in atto comportamenti rischiosi per sé e per gli altri, al sottrarsi ai vincoli di appartenenza e alla dimensione sociale della vita. Tutto deve produrre una rendita immediata, altrimenti viene giudicato inutile. Il mercato è divenuto la misura di tutte le cose e ha elevato il denaro come simbolo di tutti i valori, al punto che inconsapevolmente siamo portati a considerare le leggi del mercato come leggi di natura.
Ci si illude inoltre che i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia siano sufficienti per affrontare la vita e che, quindi, la cultura che nel corso dei millenni ci ha accompagnato a diventare più umani non sia più necessaria. La società, quella che da sempre ha regolato la scansione dei riti di passaggio verso la realizzazione adulta, sembra svanita, ormai sa solo fornirci numeri verdi da consultare e manuali di istruzioni per ogni necessità.
Anche la scuola soffre l’aggressione della cultura liberista e oscilla fra la ricerca di possibilità di resistenza e l’abbraccio all’inganno seducente del conformismo dilagante. Ai bambini e agli adolescenti:
«Consegniamo una scuola con l’idea che la scuola serva per trovare un lavoro, che sia un’utilità pratica, immediata […]. Gli consegniamo l’idea di una scuola dove imparare ad essere competitivi perché fuori il mondo è competizione o non è»(4).
E chi non riesce a uniformarsi ai modelli proposti? E chi non riesce a stare al passo?
Ne riceverà inevitabilmente un’idea di sé fuori norma, una convinzione di inadeguatezza, e rischierà la marginalità e l’esclusione. Non sorprende, di conseguenza, che negli ultimi dieci anni le certificazioni di disabilità nelle scuole siano raddoppiate e siano triplicate le diagnosi di disturbo dell’apprendimento. Può essere questa una situazione realistica? Oppure più probabilmente la situazione è anche la conseguenza di una cultura che ha ridotto tanti soggetti a non essere più in grado di gestire l’incontro con un problema, con la frustrazione di un desiderio, con un confronto che non sia conflittuale con gli altri?
NOTE:
1. W. Peretti Poggi (Wolfango), (1995), Studiare per pace, Lezione per l’Università Primo Levi, dattiloscritto.
2. P. Pasolini (1973), Le mura di Sana’a, Film Documentario.
3. Z. Bauman (2012), Conversazioni sull’educazione, Trento, Erickson, p. 91.
4. A. Bajani (2014), La scuola non serve a niente, Roma-Bari, Laterza, pp. 48-49.