DIARI DI PALESTINA

1. La strada racconta

2. Un’altra goccia d’acqua

3. I bambini palestinesi stanno piangendo

4. Dato per scontato

Sono le diciannove e trenta, dai minareti si diffonde l’ultimo litanico richiamo alla preghiera della giornata per i mussulmani. In ogni caso, anche chi professa un’altra fede, non può permettersi d’ignorarla. Questa cantilena, che come si è affrettato a puntualizzare Amir non è un canto, bensì una recitazione di versetti coranici, entra in tutte le case, da tutte le finestre, anche da quelle chiuse e ti ricorda di portare i tuoi ossequi a quel Dio che anche per oggi ti ha protetto, ti ha custodito e ha permesso che passassi una giornata serena, senza intoppi come quella precedente e, si spera, anche quella successiva. La devozione dei credenti mussulmani è ai miei occhi sorprendentemente profonda. Non tutti ovviamente si precipitano verso la Moschea non appena ne odono il richiamo ma se ne hanno l’occasione e un tappetino a portata di mano s’inginocchiano rivolti alla Mecca e recitano quei tanto famosi e ultimamente così spesso dibattuti versetti del Corano. Continue reading

SENZA TREGUA: FAR PARTI UGUALI TRA DISEGUALI

“L’occidente difende se stesso se difende Israele,
se difende la sicurezza in quella parte del mondo”
(Angelino Alfano)

Quando viene annunciata la tregua a Gaza, la Cisgiordania festeggia, movimento irriflesso di un unico corpo diviso. I venditori di cahua (caffè) ne offrono bicchieri ai passanti, sorridendo, e mentre cammino per strada percepisco come una distensione di membra contratte, un sospiro generalizzato per un massacro che rimane in sospeso. Eppure, da queste parti l’entusiasmo è un fuoco di paglia, e la realtà un secchio d’acqua gelida. Continue reading

Gaza è ricchezza sterminata

Non riesco a pensare. Qualcosa è cambiato, mi viene da dire, perché sta avvenendo l’impensabile, l’incredibile, e non ci sono parole ma solo sgomento. Al contempo, niente cambia, tutto ritorna: il piombo è ancora fuso e già una colonna di nuvole si erge su Gaza. Ma non sono nuvole, è il fumo dei bombardamenti.

Davanti all’orrore, allo sgomento, l’unico pensiero che ho in testa, dopo tutti i perché senza risposta, dopo l’incapacità di afferare anche solo un lembo di questa follia, l’unico pensiero che riesco a formulare è sciocco, maledettamente ininfluente. Perché quella che in ebraico è l’operazione Pilastro di Nuvole è stata tradotta in inglese dall’Israeli Defense Force per il mondo con i termini Pilastro della Difesa? Continue reading

AL-KHALIL

Al-Khalil, Hebron in ebraico, è l’apice della contraddizione, tra contrapposizione e mescolamento, tra esclusione e scontro. Il significato etimologico del nome di questa città, situata a 30 chilometri a sud di Gerusalemme, è “Amico”, in arabo come in ebraico. Un luogo straziato da odi viscerali ma che, ossimoro vivente, richiama ad una fratellanza che non c’è. Al-Khalil è un tappeto che ricopre i colli tipici del sud della Cisgiordania, è un saliscendi continuo, una città ondulata, una città ardua. Qui vivono più di 200000 Palestinesi e tra i 500 e gli 800 coloni israeliani, “protetti” da almeno 2000 soldati delle forze di occupazione. Qui l’esperimento dello Stato sionista di esclusione degli indesiderati ha raggiunto il livello più alto di perfezionamento, è aperto, palese, eloquente.

Il 25 Febbraio 1994, Baruch Goldstein, colono di origine statunitense, aprì il fuoco all’interno della Moschea di Ibrahim e uccise 29 Palestinesi in preghiera, ferendone 125. Fu sepolto nella a Kiryat Arba, colonia illegale che è una lama di coltello che lambisce la città e vi penetra dentro; sulla sua tomba c’è scritto “Al santo Baruch Goldstein, che diede la sua vita per il popolo ebraico, la Torah e la nazione di Israele”.

Da allora, la città fu divisa in due zone: H1, sotto il controllo palestinese, e H2, sotto il controllo israeliano. Quest’ultima sezione, che comprende il centro storico della città, è abitata da decine di migliaia di palestinesi, che anno dopo anno si vedono costretti ad abbandonare la loro abitazione. Parlare di restrizioni è un eufemismo: solo per fare qualche esempio, essi subiscono ogni il divieto di transito in automobile, i checkpoint per entrare e uscire dall’area come anche quelli all’interno, la chiusura di centinaia di negozi, strade sbarrate da muri e filo spinato. La sensazione immediata che ho è di passeggiare per una città fantasma, svuotata ed esangue, il cui confine non è stato tracciato ma innalzato, barriere di cemento armato che soffocano le arterie di un corpo agonizzante.

Shuhada Street, la strada dei martiri, è l’emblema di questa follia. I negozi che si affacciano su questa via sono sbarrati, e sui loro portoni sono evidenti le stelle di David disegnate con la bomboletta dai coloni; su uno, in particolare, si legge chiaramente “Gas the Arabs”. È un déjà vu che gela il sangue.

Nel bel suq che si articola per le stradine poco distanti c’è un non so che di inquietante: alzo lo sguardo e vedo una grata sopra alla mia testa, a tre metri di altezza, piena di spazzatura. I coloni hanno occupato i piani superiori degli edifici e gettano sui passanti ogni sorta di oggetti, sassi, spazzoloni per il gabinetto, rifiuti di tutti i tipi, feci. Vedo anche un paio di bottiglie di vino. Tra le architetture arabeggianti spunta improvvisa una torretta militare: ce ne sono a non finire, conficcate sui muri delle case, spesso a segnalare la presenza di una base dell’esercito. Siamo in pieno centro urbano, e innumerevoli sbarramenti amputano spazi ed edifici strappandoli agli abitanti per cederli a coloni e soldati. Continue reading

Viaggio in Palestina

‹‹Viaggio in Palestina›› è il titolo che abbiamo deciso di dare all’Aperitivo a Tema di Metro-Polis svoltosi il 27/06/2014 presso il suggestivo Parco dei Giardini Ca’Bura, via dell’Arcoveggio 59/8, Bologna. In questa occasione Handala, nostro socio della prima ora, neolaureato in scienze politiche, ci ha concesso l’opportunità di attingere a piene mani dalla propria esperienza di volontario in terra palestinese.
Metro-Polis non si sottrae, anche in questi tempi di desertificazione ideologica, al proprio dovere civico fondamentale: fare politica, nell’ottica della nostra associazione, significa stimolare la coscienza critica di ciascuno, significa elaborare insieme un vissuto esperenziale in grado di ampliare i propri orizzonti di pensiero; significa, perché no, avviare un confronto-scontro in cui ogni persona possa esprimere il proprio modo di essere e di sentire. La formula, ormai consolidata, dell’Aperitivo a tema permette di poter trattare tematiche non semplici in un’atmosfera priva di perniciose ampollosità da conferenza: il valore della leggerezza offre l’opportunità di toccare l’intimo di chiunque sia disposto ad ascoltare, in una prospettiva di totale orizzontalità partecipativa. È in virtù di questa prospettiva che abbiamo chiesto a Handala di raccontarci la propria esperienza: più volte volontario in Palestina con l’International Solidarity Movement, si è aperto a un dialogo rispettoso e profondo con Metro-Polis, condividendo il proprio vissuto personale, raccontandoci quanto gli è accaduto con parole rigorose e al contempo intime. Ogni mio resoconto risulterebbe banale, quindi mi taccio e faccio un passo indietro: Handala ci ha gentilmente concesso di ripubblicare alcuni articoli, scritti nel 2012 e ancora di straordinaria attualità, già pubblicati su Il Manifesto di Bologna, all’interno del blog di Metro-Polis. Mi pare importante lasciare spazio a parole autentiche, in cui trabocca un’esperienza viva, realmente patita e scevra dall’apriorismo della distanza. Pubblicheremo, quindi, otto articoli di Handala, uno al mese, volendo dare continuità e risalto a un tema di così drammatica attualità, scegliendo un punto di vista preciso e interno, con la speranza di stimolare un dialogo costruttivo con chi dovesse pensarla in maniera differente.
Al termine dell’articolo di Handala troverete una bibliografia essenziale sull’argomento (romanzi, saggi, poesie, film, documentari e siti internet) redatta dallo stesso e da Roberta Merighi, nostra affezionata socia: un grazie ad entrambi per la disponibilità e la collaborazione.

Mattia Macchiavelli

Viaggio in Palestina

OLIVE IN FIAMME

Il 6 Novembre è stata annunciata la costruzione di 1213 unità abitative nelle colonie di Gerusalemme Est, occupata dal 1967: è stato questo il messaggio che Israele ha inviato agli Stati Uniti in vista delle elezioni presidenziali. Secondo Richard Falk, il Rapporteur per i diritti umani nei Territori occupati, oggi in Cisgiordania si contano più di 600.000 coloni: ecco il famoso processo di pace di Netanyahu e soci. Questi sono i dati. Ma i dati, di per sé, non parlano. Voglio provare a raccontare come questi numeri si traducano nella lingua viva di chi sta qui, in Palestina.

Burin è un villaggio palestinese a sud di Nablus (la città più popolosa della Cisgiordania). Da qualche settimana andiamo a raccogliere le olive da alcuni contadini. Diamo loro una mano, ma in realtà la nostra funzione principale è quella di tentare di impedire gli attacchi dei coloni e dell’esercito. Il villaggio è in una piccola vallata schiacciata tra due colline, sulle quali salgono i terrazzamenti degli ulivi. In cima ad ognuna di queste colline, una colonia e un avamposto militare: Bracha a nord, Yizhar a sud.

I contadini tentano di fare ciò che facevano i loro padri e i padri dei loro padri prima di loro: curare i loro alberi, raccoglierne i frutti verdi e neri, farne olio. Non mi viene in mente azione più innocua, persino romantica per noi cittadini urbanizzati. Se non fosse che per i coloni che vivono poco distanti quella è terra di Israele, promessa dalla Bibbia, rubata dagli Arabi, e loro dovere è riconquistarla ad ogni costo, con ogni mezzo. Nè più, nè meno.

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