Partire non è mai facile. Lasciare la propria casa, le persone che si conoscono da sempre e i luoghi in cui si è cresciuti, è un gesto coraggioso. Ma nella vita bisogna avere coraggio, bisogna essere capaci di correre dei rischi altrimenti non ci sarebbero storie incredibili da raccontare e bellissimi libri di avventure da leggere. Quando poi si decide di essere abbastanza coraggiosi per partire è altrettanto necessario ritrovarsi capaci di stupore. Lasciarsi sorprendere, stupirsi, perché solo in questo modo si è in grado di imparare qualcosa di più dal luogo in cui si è ospiti. Non si può sapere tutto, c’è sempre un margine d’imprevedibilità che è comunque bene mettere in conto. Allo stesso modo è fondamentale lasciare da parte quell’inevitabile etnocentrismo che noi occidentali ci portiamo sempre dietro come la nostra ombra. Continue reading →
Ho sempre desiderato visitare la Palestina, un po’ perché da studiosa e appassionata di relazioni internazionali mi sono sempre chiesta come una così lampante violazione del diritto internazionale potesse davvero verificarsi nel mondo moderno e in secondo luogo perché tale violazione è stata protratta per anni e tuttora si fatica a vederne la conclusione. L’associazione con cui sono partita si chiama OIKOS, ONG italiana che si appoggia ad altre organizzazioni locali, nel caso di specie io ho collaborato con il Jenin Creative Cultural Center. Questa organizzazione nasce nel 2003, in seguito alla seconda intifada, per riportare un po’ di normalità nelle vite di ragazzi e bambini che avevano incontrato la violenza della guerra e delle rappresaglie armate nei confronti dei loro genitori, parenti e amici. Ma soprattutto che avevano assistito alla distruzione di quel paese che chiamavano “casa”.
Mi sono preparata molto per questo viaggio, ho letto e approfondito tutto quello che trovavo su questa terra e mi sono immaginata mille volte come sarebbe stato arrivare a Jenin. La città si trova nel nord della West Bank, quindi per raggiungerla dall’aeroporto di Tel Aviv ho dovuto fare parecchia strada. Continue reading →
Sono in un appartamento di Tel Aviv. Seduti davanti a me ci sono Tom e Schlomo, due giovani attivisti israeliani. Discutiamo da un’ora su ciò che meno conosco e comprendo, ovvero il punto di vista israeliano sull’occupazione. Occupazione che viene ridotta, anche lessicalmente, a conflitto, termine che suggerisce uno scontro tra attori sullo stesso piano. Alla fine, poi, il conflitto stesso viene normalizzato, diventa una quotidianità indifferente e allo stesso tempo si allontana, si fa silenzioso, viene digerito e interiorizzato.
L’intera società israeliana è pervasa dalla guerra, anche al suo interno. Il militarismo è l’altra faccia del sionismo. La mobilitazione totale ne è condizione necessaria. Schlomo racconta: «L’esercito è una presenza costante agli occhi dei bambini. Ricordo un gioco, alla materna, che consisteva nel collegare un’immagine ad un’altra immagine della stessa categoria. C’era un fucile disegnato, e bisognava tracciare una riga che portasse ad una colomba o ad un ramo d’ulivo. Alle elementari invece ci facevano scrivere letterine di ringraziamento ai soldati, e preparavamo per loro dei dolcetti da portare in caserma. Alle superiori spesso il supplente era una soldatessa che ci raccontava l’importanza e la bellezza di servire il proprio Paese».
Prosegue Tom: «L’esercito è la cosa più sacra, è intoccabile, non si può criticarlo in nessun modo. Ancora oggi, gli obiettori di coscienza possono evitare la leva obbligatoria solo per ragioni di salute o di salute mentale. Sennò vai in carcere, finché non vieni considerato non idoneo al servizio militare. Senza contare le pressioni familiari e sociali che devi subire se decidi di non prendere parte alle politiche di questo Stato di Apartheid».
Insisto, chiedo come sia possibile questo consenso così ampio intorno ad un disegno criminale che va avanti, imperterrito, da decenni. Tom ha una sua tesi al riguardo: «C’è un lavaggio del cervello costante che sfrutta il concetto di sicurezza. Parlare di continuo di sicurezza fa nascere la paura, e con la paura si può fare di tutto». Mi cita una frase attribuita nientemeno che a Herman Goering: «Ovviamente, la gente non vuole la guerra. Perché mai un contadino pezzente dovrebbe rischiare la vita in guerra quando il massimo che ne può ottenere è tornare alla sua fattoria tutto intero? Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra; né in Russia, né in Inghilterra, né America, e per quello neanche in Germania. Questo è ben chiaro. Ma, dopo tutto, sono i capi della nazione a determinarne la politica, ed è sempre piuttosto semplice trascinare la gente dove si vuole, sia all’interno di una democrazia, che in una dittatura fascista o in un parlamento o in una dittatura comunista. […] La gente può sempre essere condotta ad ubbidire ai capi. È facile. Si deve solo dirgli che sono attaccati e accusare i pacifisti di mancanza di patriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in qualunque paese».
Non basta. Tom aggiunge, con voce ferma, che «in realtà la maggior parte degli Israeliani non è estremista come i coloni. È solo apatica: gli Israeliani impiegano moltissime fatiche e sforzi continui nel non volere vedere». Schlomo mi racconta allora della sua personale presa di coscienza: «Sono nato in kibbutz. Tutti erano molto militaristi e molto sionisti, lì dentro. Un giorno, ero ancora un bambino, vidi un villaggio abbandonato, poco lontano dal mio kibbutz. Cominciai a chiedere in giro perché quelle case fossero vuote, sembrava che non ci vivesse nessuno da decine d’anni. Nessuno mi rispondeva, sviavano le mie domande o mentivano. Fu allora che compresi che c’era qualcosa di nascosto, qualcosa di cui non si poteva parlare. Quello era uno dei villaggi ripuliti durante la Nakba, i cui abitanti e i loro discendenti vivono, forse, in un campo profughi da qualche parte, senza poter ritornare». Continue reading →
“Nella gola del serpente
fa un buio pesto
scommetto che è per questo
che non vediamo niente”
Il Teatro degli Orrori, L’impero delle tenebre
Tel Aviv è una splendida cecità. La guerra è lontana, l’occupazione sembra distante, in un’altra dimensione, in un’altra epoca. In verità, si spara a poche decine di chilometri, ma qui è tutto attutito, la città è protetta da una cappa di luce artificiale, percepisco come un filtro, un silenziatore posato sulle villette a schiera e i giardini ben curati.
Le immagini di un’Occidente tollerante ed opulento scaturiscono da ogni angolo, ma la quotidianità dei Territori Occupati, una quotidianità ancora vivida nella mia memoria, genera un contrasto insopportabile con questa che mi sembra una realtà di carta, ho nelle orecchie una cacofonia continua, un senso di nausea in gola. È il mito della caverna di Platone applicato allo spazio urbano: una sfilata di belle figurine viene proiettata continuamente sulle pareti della grotta, e la grotta stessa è rivestita da una carta da parati che raffigura spiagge dorate e grattacieli.
A Tel Aviv non vedrete scritte sui muri contro il sistema, niente falci e martelli né “la legge è illegale”, ma bombolette che disegnano stelle di David e raccontano di orgoglio nazionale.
Il memoricidio ha raggiunto gli obiettivi prefissati: Yafo, delizioso e pittoresco quartiere di Tel Aviv, aveva 120000 abitanti palestinesi prima della Nakba. Dopo la pulizia etnica, ne rimasero circa 3900, molti fuggirono via mare, fino a raggiungere Gaza. Yafo si chiamava Giaffa, i suoi pompelmi sono oggi un simbolo israeliano, le sue case, distrutte durante i bombardamenti e le deportazioni e in seguito ricostruite, divennero abitazioni per artisti ebrei. Continue reading →