Tradurre

La traduzione è forse uno dei compiti scolastici cui siamo maggiormente abituati, almeno in Italia, dove l’insegnamento del latino, e in minor parte del greco, è obbligatorio in molte scuole. In molti ricordiamo le interrogazioni e le liste di paradigmi da mandare a memoria, ma ancor piùnon si puòdimenticare il pesante dizionario che guidava nello svolgimento della temuta versione, fido compagno di guerra, e altrettanto sgualcito, ancora degno di un posto d’onore nelle nostre librerie, anche se ci occupiamo di tutt’altro e il latino non lo leggiamo dalla fine del liceo. Ma è forse questa, che in molti ricordiamo, una traduzione? Il punto sta in cosa è oggetto della traduzione, se i pensieri e i concetti oppure le parole e la sintassi. Forse, è vero, non si può avere uno senza l’altro, non si può trasporre un pensiero efficace senza un’esatta riproduzione dell’argomentazione e delle sue figure, ma a monte sta l’idea, che non è mai abbastanza ripetuta, che bisogna prima capire per poi tradurre e non tradurre per capire.
In altre parole, si può tradurre nella lingua di arrivo solo quello che si è compreso nella lingua d’origine. Ed è forse per questo che il ricordo che in molti abbiamo delle nostre ‘traduzioni’falsa la percezione di cosa sia la traduzione, non uno sforzo su regole grammaticali e parole dal significato oscuro che solo man mano che veniamo traghettando nel nostro sistema linguistico acquistano un significato, ma una conversione, una metamorfosi  di nuclei concettuali ben compresi da una lingua all’altra. traduzionePer cui forse dovremmo allontanarci momentaneamente dalla nostra esperienza personale su cosa sia tradurre e provare a reinterpretare questo compito magari rapportandoci di più alla conoscenza delle lingue moderne, in cui oggi siamo versati – almeno alcuni – più che nel latino. Tuttavia anche questo caso non ècalzante per mostrare la cosa a chi non sia traduttore di professione, perchése con il latino ci sforzavamo a ‘tradurre’in italiano il testo di una lingua non posseduta pienamente dai molti che si sono trovati a tradurla, con l’inglese o il francese ci troviamo a conoscere più a fondo una lingua (anche in questo caso un’idea di conoscenza completa è assai improbabile per i non addetti ai lavori) senza però che mai ci venga proposto l’esercizio della traduzione quale invece ci era somministrato nelle tante versioni di latino dell’adolescenza. Lasciando per cui le nostre esperienze riguardo al tradurre, o, per meglio dire, cercando di combinarle, osserviamo ora cosa la traduzione abbia significato per greci e romani, che al pari nostro si trovarono nella situazione di dover vertere. Ci soffermiamo su un caso esemplare, San Girolamo, il celebre traduttore dell’Antico Testamento dall’ebraico al latino.

Girolamo, nato a metà del IV secolo ai bordi della Pannonia da famiglia cristiana e formatosi retoricamente a Roma, dopo essersi stabilito definitivamente in un monastero fondato a Betlemme, nel 394 intraprende il lungo lavoro di traduzione, che lo accompagnerà per  ben tredici anni. Conoscitore esperto dell’ebraico  – e di alcune altre lingue mediorientali come il siriaco –  e di madrelingua latina, Girolamo si trova nell’ideale situazione di poter trasporre nuclei concettuali profondi da due sistemi linguistici perfettamente conosciuti. La caratura, inoltre, del testo in questione investe Girolamo di una coscienza maggiore del suo ruolo e della sua opera, ossia comprende bene, come avràa dire nell’epistola LVII a Pannachio, conosciuta anche con il titolo de optimo genere interpretandi, che ènecessario tradurre non verbum e verbo, sed sensum de senso. Ossia ha precedenza il concetto sulla parola, il contenuto sulla forma, il significato sul significante. Non è importante, dice Girolamo, che ogni parola sia resa con un perfetto equivalente, ma che il nucleo profondo sia disvelato dalle nuove parole nello stesso modo delle precedenti, e anzi avverte che la fedeltà alla traduzione letterale non oscuri il messaggio del testo. Su questo Girolamo èsempre molto chiaro, tanto piùquando si trova a dover fare i conti con gli innumerevoli detrattori che, ripetutamente, lo accusano di biasimare la santa traduzione dei Settanta con il suo nuovo lavoro dall’ebraico. Ma la Settanta (la traduzione uniforme in greco dell’Antico Testamento di 72 scribi attuata nel III sec. a.C. in modo leggendario e miracoloso), dice Girolamo, è ormai compromessa da numerose filiazioni, sicché il testo stesso in alcuni passi è contraddittorio e oscuro. E’dunque sempre per lo stesso assunto di chiarezza e di comprensione come prima base per una buona traduzione che Girolamo torna all’hebraica veritas, per poter tradurre alle chiese latine un significato e non un insieme di parole. Ciò che egli ricerca, messo in evidenza dall’importanza sacra attribuita al testo, è sempre il comprendere, l’intelligere, prima del tradurre, vertere: trattandosi di un significato religioso da rendere chiaro ai fedeli, Girolamo non può accontentarsi di tradurre il significato, a volte incomprensibile o contraddittorio – ed è qui il punto – della lezione greca dei Settanta, ma deve tornare a comprendere cosa quel testo diceva, per poterlo trasporre. Dunque un atteggiamento lodevole quello di Girolamo, esempio per ogni vero esegeta, che sia un traduttore o solo studioso: l’umiltà di fronte al testo, di qualunque natura sia, per disporsi alla sua comprensione, e solo in seguito ad aver capito la possibilità di dire cosa quel testo ha voluto dire e così anche tradurlo.

 

Diego Baroncini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.