DIFENDENDO ARENDT – IL PECCATO ORIGINALE DELLA FILOSOFIA

 Sul quotidiano Avvenire del 24 ottobre 2015, Roberto Timossi ha recensito il testo di Hannah Arendt Socrate, uscito in Italia solo recentemente e che raccoglie le lezioni che la filosofa ha tenuto nel 1954 presso la Notre Dame University negli Stati Uniti.

La recensione di Timossi, “Arendt avvicina Socrate e Gesù ma sbaglia”, ha solo una pecca: quella di non cogliere il significato e il fine della riflessione arendtiana e anzi di distogliere l’attenzione dal tema che stava più di tutto a cuore alla filosofa.

Ma partiamo dall’inizio. Su alcuni aspetti dell’analisi di Timossi non si può che concordare. Il primo, fondamentale, è che Arendt non ci restituisce affatto un “Socrate storico”, ma un Socrate re-interpretato: Socrate è per lei prima di tutto un simbolo. Si deve però considerare che la mancanza di fonti dirette ha da sempre reso difficile una lettura oggettiva del pensiero del filosofo greco, di cui autori diversi hanno di volta in volta enfatizzato aspetti diversi. In questo, Arendt non fa eccezione. E, d’altronde, filosofi e storici hanno compiti ben distinti. 

Il secondo aspetto su cui concordare consiste nel riconoscere che all’inizio delle sue lezioni Arendt effettivamente propone un paragone tra Socrate e Gesù: entrambi hanno rappresentato dei punti di non ritorno per i rispettivi ambiti (filosofia e religione); entrambi hanno testimoniato con la propria morte il loro “credo”. Anche in questo Arendt non è originale: nella storia della filosofia le figure di Socrate e Gesù sono state accostate molte volte e ben prima di lei, basti pensare a Hegel e Kierkegaard.

SocrateIl punto però è comprendere perché Arendt abbia ripescato Socrate, perché ne abbia sentito la necessità. Ed è di questo che la recensione non parla. Come sempre in Arendt, il retroscena è la tragedia della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto: per la filosofa, all’indomani di quella tragedia è diventato necessario interrogarsi su come tutto ciò sia stato possibile e come lo sia stato proprio in Occidente, dove gli anticorpi del pensiero razionale sembravano più forti. Sono tanti i percorsi che si potrebbero seguire per rispondere a questa domanda, ma Arendt si concentra su quello filosofico: quali sono le responsabilità della filosofia come espressione tipica della civiltà occidentale? In quale momento della sua storia si può trovare il germe di quello che è accaduto? È da qui che Arendt parte e procede a ritroso fino ad arrivare non tanto a Socrate, quanto al tradimento che di Socrate fece il suo più importante allievo, ovvero Platone. Socrate era “politico” non perché partecipasse alla vita pubblica della polis, ma perché la sua azione era politica: era discussione aperta, critica costruttiva, che non poteva accettare Verità in modo dogmatico. Gli insegnamenti socratici non erano affatto legati a «discorsi intrinsecamente persuasivi», come riporta Timossi, ma alla costruzione razionale e condivisa di una verità. Una verità non assoluta, ma umile, che poteva e doveva essere continuamente perfezionata nell’incontro e nel confronto pubblico.

Plato-raphaelIn tutto questo, si presentò tuttavia un problema: le opinioni possono essere difficili da gestire, le opinioni possono anche uccidere, possono condannare a morte il più giusto della città. Ed è qui che si innesta il tradimento dei tradimenti: Platone fugge dal mondo reale delle opinioni e si rifugia nel mondo tanto irreale quanto perfetto delle Idee. Idee che non esistono, ma che sono rassicuranti. La Verità è rassicurante. Ma la Verità, quella con la V maiuscola, quella che viene imposta senza spiegazioni, è totalitaria. È in questo punto che la filosofia ha ritrovato il germe filosofico del totalitarismo: nel rifiuto di Socrate e nell’accettazione di Platone. Seguendo Socrate si arriva alla democrazia. Seguendo Platone si arriva alla dittatura. La filosofia occidentale ha seguito Platone ed era solo questione di tempo perché accadesse quello che è accaduto.

Si può biasimare Arendt per aver individuato nel “personaggio Socrate” un simbolo? No. Di fatto, Arendt riprende esattamente gli aspetti del Socrate storico che sono arrivati sino a noi. Semplicemente ne enfatizza il carattere politico (abbiamo già visto in che senso “politico”).

In tutto questo contesto, il paragone tra Socrate e Gesù è ben secondario. E, infatti, sono assai pochi gli accenni che vi troviamo nel testo in questione. Non è questo il punto. E, d’altronde, Gesù non poteva certamente rappresentare per Arendt un simbolo altrettanto efficace per la sua analisi: Gesù è più simile a Platone in questo senso, perché enuncia Verità assolute, da prendere o lasciare. Ma Gesù non poteva essere un bersaglio per Arendt, perché è al di fuori della filosofia. Platone no: Platone è completamente immerso nell’ambito filosofico e, nonostante questo, tradisce il senso stesso della filosofia.

hannah-arendtLa recensione si conclude con una riflessione sullo scarto tra Socrate e Gesù e sulla «differenza qualitativa» dei rispettivi messaggi: da un lato avremmo infatti una dimensione etica esclusivamente terrena, dall’altro il richiamo alla salvezza divina. Hegel e Kierkegaard, a differenza di Arendt, sottolinearono questo aspetto. Tuttavia, qui vengono mescolati due piani ben diversi: Arendt non è interessata all’aspetto etico, ma a quello propriamente politico, ovvero di come si possa vivere insieme in una società che non schiacci il singolo, ma che permetta a ognuno di esprimere le proprie opinioni, senza che qualcuna di queste diventi totalitaria. Il messaggio di salvezza riguarda il piano etico e privato. Il messaggio socratico riguarda il piano politico e pubblico. Quanto potrebbe essere pericoloso agli occhi di Arendt confondere i due livelli!

Beatrice Collina

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