di Mariangela Latella
Tratto dalla raccolta Storie d’amore all’ombra delle Due Torri, a cura di Romano Stagni, 2016, Ibiskos Editrice Risolo, che abbiamo presentato durante l’Aperitivo a Tema del 18 marzo 2018.
E ora come ve lo spiego? Come faccio a raccontarvi come sopravvissi a quella strana stagione della vita in cui i sentimenti travolgono le nostre esistenze come fossero una tempesta di meteore. Ne fui investita anche io. Era estate, l’agosto del 1980, avevo appena iniziato l’università e, vi assicuro, la mia fu davvero una tempesta memorabile.
Cavoli che botta!
Mi attraversò senza neanche rallentare un attimo tutto quel flusso di detriti, meteore, stelle cadenti e ogni altro ben di Dio stellare. Mi travolse con così tanta prepotenza che riuscì a scompormi in tante minuscole parti di me, che sempre a me appartenevano, sempre me erano, ma che presero a vivere di vita propria.
Alcune di esse non sospettavo neanche di averle.
Fu tutto uno strano e rutilante fluire di detriti malmostosi attratti come fossero magneti nel lento e inesorabile mischiarsi alla mia materia. Non mi fece male ma accadde. Solo questo so e ancora adesso non capisco nemmeno se sia stato un bene o un male.
Voglio raccontarvelo anche se non so bene da che parte iniziare. Posso solo rassicurarvi e rassicurarmi che ne sopravvissi e, in una qualche maniera, tutto ciò, lo ammetto, mi piacque molto.
Ho una pessima memoria. Di quel periodo, intendo. Anche della mia scomposizione in mille piccole parti, ricordo molto poco. Giusto qualche vago frammento che riaffiora talvolta tra le memorie di qualcuna di esse che ha conservato, nella sua nuova vita, una qualche mia sensibilità a prescindere dall’incredibile frammentazione.
Un ricordo, un frame, un flash che poi si trasmette a tutte le altre, distanti ognuna mille miglia, per un fatto, credo, di vibrazione. O forse ultrasuoni. Non so.
Ma considero questa, la prova che le mille parti di me che presero una vita propria, dopo la tempesta di meteore, chiamiamola così, mi rimasero comunque attaccate. A loro modo, continuarono ad essere una me stessa solo un po’ più diluita nello spazio.
Non so perché mi spacchettai in mille pezzi ma credo che accadde nel preciso istante in cui mi esplose il cuore mentre baciavo Vinicio, alla stazione di Bologna.
Che bacio, ragazzi!
Conoscendomi ipotizzo che tutte quelle esistenze piccole che da me derivarono da quel momento, scelsero di moltiplicarsi per una questione di insofferenza o forse per pura ribellione di fronte a quel tanto tribolare, pulsante emozionare, baciare.
Non saprei dire con precisione, fatto sta che tutto ciò semplicemente ci accadde perché questo, probabilmente, è l’inesorabile destino che tocca a coloro che sono attraversati da una tempesta formidabile di meteore in quella strana e splendida stagione della vita dove ogni cosa può accadere.
A me, per dire, accadde di moltiplicarmi.
Non capite?
Provo ad essere più chiara.
Il cuore, ad esempio, lo vedete? È proprio sotto quell’albero in mezzo alla foresta. Sta lì per il semplice motivo che mi divenne un orso pur continuando imperterrito a pulsare come si conviene ad ogni cuore. Ma d’un tratto, dopo l’ultimo impatto fortissimo con la roccia di quella meteora emozionale, si animò d’impeto tanto che si fece venire i peli e crebbe. Cinque, dieci, cento volte tanto. Poi, raggiunta la sua forma di orso, prese a vivere tra le montagne nella sua nuova veste di sopravvissuto, come me, pulsando.
Per quel che ne ho memoria, non mi opposi affatto alla sua nuova vita. In fondo mi piaceva. Mi piacevano le foreste che scelse. Credo fossero a nord. O forse a sud. Non so, su questo punto non sono stata interpellata.
Il mio cuore, divenuto orso, fu creatura di poche parole e ancor meno pretese: gli bastava di stare in solitudine come accade più o meno a tutti gli orsi perché così ci piaceva.
Ma non divenni solo orso. Le gambe ad esempio, anche quelle presero la loro strada credo subito dopo l’inizio della tempesta di meteore. Una fu carbone, l’altra foglia.
Voi, forse, vi aspettate che adesso io provi a ricomporre le mie idee ma, lasciatemelo dire, è una cosa ben difficile da pretendere soprattutto nei confronti di una come me che si ritrova, suo malgrado, così esageratamente moltiplicata e scomposta. Ancor più difficile, poi, perché la lingua mi divenne crisalide depressa perché non si è più ripresa dall’abbandono del bozzolo da parte della sua farfalla volata via, splendida e fluttuante, dopo un adeguato tempo di incubazione.
Sto provando a raccogliere i miei pensieri ma la mia mente, che dopo la tempesta di meteore sentimentali mi è diventata formicaio, non mi aiuta. Tutti quegli esserini zompettanti, nervosi, frenetici anche se, va detto, ordinati e puliti, mi creano continuamente confusione. Non alleviano questo senso di smarrimento che mi porto dietro. Non mi aiutano a ricomporre il quadro.
Proviamo a iniziare dall’inizio, se la memoria mi aiuta. Proviamo ad andare indietro nel tempo, a prima del primo degli impatti meteoritici.
Era una mattina d’agosto. L’uno o il due, non ricordo. Ricordo l’anno, era il 1980, perché avevo appena iniziato l’università.
Ecco, ripensando a quel prima, in tutta onestà non posso dire di essere nata orso, formica, crisalide o, povera me (provo una certa vergogna a dirlo) persino verme come in realtà poi diventarono alcune dita dei miei piedi e anche il naso.
Posso dire, senza ombra di dubbio alcuno, che anche quella fu per me una rispettabilissima esistenza complessa che, in tutta franchezza, neanche impegnandomi con tutte le mie forze, avrei mai potuto provare a mettere in discussione. Né, credo, vi sarei riuscita.
Potremmo, tutti i miei noi, provare a ricostruire il nostro “prima” grazie alle percezioni, che dopo la mia scomposizione, si sono moltiplicate.
Mi spiego.
Quando passo davanti a certi luoghi mi emoziono. Io formicaio, orso o foglia e ognuna delle parti di me, di riflesso. Ovunque esse si trovino, all’unisono, iniziano ad emettere dei segnali a distanza che poi diventano un comune sentire, silenzioso e inspiegabile.
Forse è un richiamo o forse è solo l’effetto del ricordo.
Non saprei definirlo con precisione, in questo momento, per colpa di quell’inconsolabile depressione che ha colpito la mia crisalide dopo l’addio della farfalla da cui non si riesce proprio a farla guarire.
Tengo a chiarire che non è poi così incredibile e assurda la vita da essere frammentato. Non più, per lo meno, dell’altrettanto folle sforzo, continuo e usurante, del vivere tutti belli appiccicati a se stessi, mantenendo unite con una fatica immane le mille parti brulicanti di sé, sopravvissute anche esse ad una qualche certa tempesta di meteore. Siamo tutti sotto lo stesso cielo. Suvvia!
Ma non voglio divagare, torniamo a quel “prima”.
La mia era un’esistenza rispettabilissima e normale e per normale intendo innanzitutto “unica” nel senso di “unitaria”. Vivevo, da ragazza spensierata, in una delle città più belle del mondo: Bologna. Per la verità credo di viverci ancora in qualche modo. Vado, vengo, mi fermo, riparto. Non ho mai smesso di viverci in questa città anche grazie a delle piccole memorie conservate nel mio formicaio che occupa uno spazio infinitesimale di via Del Pratello, o a quel modo particolare di pulsare in risposta ai portici, del mio cuore-orso.
La crisalide abbandonata, poi, lo so per certo, vive in pianta stabile lì. Ha preso dimora proprio sotto l’orologio della stazione, in piazza Medaglie d’Oro. E non c’è verso di spostarla. Vuol essere sicura che, se la sua farfalla dovesse tornare, la trovi proprio nello stesso identico punto in cui si sono lasciate.
Non oso contraddirla anche perché, in fondo, anche quella crisalide sono io ed io non amo molto essere contraddetta. Non oso recriminare neanche sull’abbandono della farfalla che anche lei è me ma, in tutta onestà, da quando è andata via, fino ad oggi, di lei non ho più avuto notizia alcuna.
Mentre vivevo a Bologna, facevo la ragazzaccia. Dovrete convenire con me che non posso certo definire “a modo” la ragazza perdigiorno che ero, impegnata soprattutto a girovagare alla scoperta di tutti gli anfratti della città, anche i più degradati, e a conoscere improbabili personaggi, parecchi dei quali barboni o drogati, cantare per strada e negli autobus a tutte le ore del giorno e della notte con buona pace dei passanti e degli autisti, bere vino rosso come fosse acqua e fumare dei gran spinelli.
No, non si può certo dire che fossi una ragazza a modo. Ero decisamente una gran ragazzaccia e conducevo una rispettabilissima esistenza da studentessa universitaria perdigiorno. Anche se, in fondo, buona di cuore, un po’ timida forse e con un perenne casino in testa. Ah sì anche abbastanza linguacciuta perché facevo proprio fatica a tenere a freno le cose che avevo da dire.
Ahahah che bei tempi!
Nonostante tutti gli sforzi che facessi per essere “pessima” anche io fui colpita, in quella strana stagione della vita in cui tutto può accadere, da una formidabile tempesta di meteore. Ma non chiamiamoli sentimenti, per favore! A chi giova questo compulsivo bisogno di etichettare ogni cosa?
Iniziò in treno, mentre rientravo a Bologna dopo una notte trascorsa ad Ancona insieme a Vinicio, studente scapestrato pure lui, solo per guardare l’alba sul mare. Avevamo riso e scherzato tutto il tempo come se fossimo ubriachi.
Anzi, per la verità lo eravamo davvero. Anche molto.
Eravamo arrivati alla spiaggia di Ancona senza saltare neanche uno dei bar aperti che incontravamo lungo la strada dalla stazione al mare. E ad ogni bar ordinavamo un bicchiere di vino o un whisky o un rum o quello che c’era. Per sicurezza, considerando come probabile la possibilità di cadere addormentanti e sfiniti sugli scogli, dopo tanto girovagare, ci eravamo pure portati dietro da Bologna, due cuscini infilati dentro uno zaino da campeggio.
Ma non li usammo.
Mentre il sole sorgeva eravamo già avvinghiati sopra gli scogli a limonare.
Non la guardammo nemmeno l’alba sul mare perché avevamo gli occhi chiusi da tutto quel gran baciare e, un po’, anche dai fumi dell’alcol che non avevamo smaltito. Proprio mentre albeggiava pensammo di tornare a Bologna in cerca di intimità e ci imbarcammo, senza smettere di baciarci, sul primo treno. Ecco sì, credo che la mia tempesta di meteore iniziò proprio lì anche se non credo di essere stata abbastanza lucida da rendermene conto.
Arrivammo in stazione alle 10.15 del mattino. Camminavamo abbracciati nel sottopassaggio in direzione piazza Medaglie d’Oro e ad ogni pie’ sospinto ci fermavamo a baciarci. Un minuto, due, cinque, dieci. Chi può dirlo cosa fosse il tempo per due ragazzacci con uno zaino da campeggio pieno di cuscini intenti a limonare in un sottopassaggio bassissimo come fosse un’alba sul mare.
Arrivammo al primo binario quasi ipnotizzati e abbracciati. Erano le 10.25 del mattino. Ecco penso che fu tutta questa vicinanza e questo gran baciare a causare la tempesta di meteore sentimentali che ci investì (credo contemporaneamente) con un fragore incredibile, con un tumulto indescrivibile, con una forza dissolvente inenarrabile. Se solo la mia crisalide potesse aiutarmi!
E ci volle molto, molto, molto amore per non soccombere sotto quel flusso costante di detriti, meteore, stelle cadenti e ogni altro ben di Dio stellare, attratti come fossero magneti nel lento e inesorabile mischiarsi alla mia materia. Una cosa è certa, le nostre lingue, la mia e quella di Vinicio, rimasero unite tutto il tempo.
E poi io mi moltiplicai e sopravvissi nelle mille parti di me che ne derivarono. Orso, solitario e pulsante o anche formicaio e tutta la sua gran confusione, o verme o persino crisalide, tuttora depressa e ancorata all’orologio della stazione di Bologna che, da quella mattina incredibile della mia tempesta di meteore, segna sempre la stessa ora. Le 10.25.