di Ottorino Tonelli
Me so scucciato. Confesso, non ho più voglia di vedere mostre d’arte dai titoli mirabolanti e nella pratica una accozzaglia di opere senz’arte né parte, riunite solo per giustificare il titolo della mostra, o, per meglio dire, la vanità e la borsa del curatore. Ma siccome la lingua batte dove il dente duole, non posso fare a meno di intrufolarmi con lo sguardo e con la mente nel mondo dell’arte.
Per fortuna, da un po’ di tempo in qua, sul mercato (sempre di quello si tratta) si trovano: “libri parassiti”.
Cosa? Come? Mi chiedono. Semplice: un libro è un libro; e un parassita è quello che approfitta di, vive alle spalle di, del sangue di.
Se io scrivo un libro che s’intitola La signora Maria, non lo vendo neppure a mia sorella; se invece lo intitolo Maria, l’amante di Michelangelo il Buonarroti, va a ruba perché smuove una pruderie che tanto va di moda (avete presente quelle trasmissioni, ma nemmeno, quelle “confessioni” più sessuali che sentimentali che nessuno richiede, ma che ormai tutti si sentono in dovere di mettere in piazza?). Nel caso del Buonarroti: gay? misogino? Bello scoprire che avrebbe avuto un’amante femmina, con la quale chissà che faceva. Ovviamente, poi, uno ci scrive quel che vuole nelle pagine, insomma ogni puttanata è bella a mamma sua. Ebbene, questo è il “romanzo parassita”, quello che succhia il nome dell’artista per attrarre l’attenzione del mercato.
Ma non voglio né posso fare d’ogni erba un fascio: Ninfee nere di Michel Bussi è un capolavoro (per me, s’intende), non fosse altro perché mi ha fatto sentire il profumo del giardino di Monet a Giverny (se poi sia quello reale o autentico poco importa, lasciatemi sognare).
Altri ne ho letti, di romanzi parassiti, e forse a lungo andare, passata la santa novità, è forse il caso di passare ad altro genere di letture.
Ma di Pierre Michon vorrei parlare, perché il suo Gli Undici non è un semplice libro parassita che scrive di un quadro e di un artista: è la narrazione parassita di una storia parassitata (m’è venuta così, passatemela).
Provo a spiegarmi. C’è un artista e il suo quadro collocato in una sala del Louvre: di questo narra il libro; ma né l’artista, né il quadro esistono, né mai sono esistiti. Pura invenzione, ma tutta la storia regge perché è ben costruita e narrata.
E mi piace questa storia, al punto che mi vien voglia di parassitare me stesso: parassitare il vero perché possa apparire reale, dato che quello che non appare non è reale, di questi tempi (“al mondo non conta esserci, ma saperci stare”, diceva mia nonna). E così potrei inventarmi frequentazioni di grandi critici, collezionisti e conservatori di musei, ritratti contesi da regine e dittatori; una vita avventurosa, forse di rivoluzionario, con un po’ di delitti e di galera alle spalle, droga e altro ancora; quadri e sculture che ogni volta battono alle aste il record precedente; grandi mostre e grandi ville defilate in luoghi sconosciuti a tutti, perché solo dall’abbandono del mondo l’Artista può ricreare il mondo.
E mi fa ben sperare che, su questa scia, in una trasposizione reale, le mostre di un prossimo futuro, parassitino l’esistente, e cioè quello che non appare, e quindi non esiste. Penso ad artisti, come Giordano, Luigi o Nino, che a tutt’oggi non hanno una storia (rivelata intendo). Voglio sperare che qualcuno la riveli, inventandola ovviamente, perché quella vera esiste già e sembra non contare nulla.