di Gianluca Guerra
Il mondo è sull’orlo del baratro, e ormai questa è una certezza con cui stiamo prendendo sempre più confidenza. Attraversiamo un’epoca di sovraesposizione mediatica, di crisi continue, di rivoluzione legata all’intelligenza artificiale che stanno demolendo tutte le certezze su cui abbiamo costruito il fragile equilibrio del mondo occidentale, e stiamo lentamente metabolizzando in modo collettivo l’impossibilità di controllare il nostro futuro, forse anche di immaginarlo.
Prima la guerra al terrorismo ci ha mostrato la fragilità del modello coloniale strappando definitivamente il velo di Maya dell’utilità del Diritto Internazionale targato Nazioni Unite; poi la crisi economica dei mutui subprime e il Covid-19, che hanno reso evidente come la globalizzazione sia solo un castello di carte più simile a uno schema Ponzi che ad un vero strumento di sviluppo: per la prima volta dopo decenni infatti casa, lavoro e salute – la sacra trinità del progressismo democratico – subiscono una svalutazione valoriale importantissima, vittime del capitalismo estrattivo che le colloca alla stregua di beni di consumo su cui speculare.
C’è poi l’emergenza ormai non più rimandabile del cambiamento climatico, che si erge sulle nostre teste come una spada di Damocle che non riusciamo ad ascoltare fino in fondo: ci fa paura, ma non così tanto da mettere in discussione un sistema basato sullo sfruttamento delle persone e della natura per produrre una finta idea di benessere.
Infine le grandi crisi politiche internazionali come il genocidio del popolo palestinese perpetrato da Israele, le numerosissime guerre sparse per il mondo, la definitiva chiusura del ponte levatoio della fortezza Europa e l’affermazione ormai inarrestabile della destra globale nei processi democratici e culturali, che ha evidentemente trovato le galline dalle uova d’oro nella crisi sistemica del pensiero politico progressista.
Intorno a questo scenario ruotano piani politici per predire le future direzioni del mondo, condite dall’insicurezza derivante dal crollo dell’unipolarismo che ha caratterizzato i 35 anni successivi alla caduta del muro di Berlino: sempre di più il potere egemonico degli Stati Uniti si sta erodendo, permettendo lo spostamento del baricentro globale verso aree che, nonostante la nostra cultura occidente-centrica ci renda difficile crederlo, si stanno liberando dal giogo post coloniale e stanno costruendo una indipendenza matura capace di mettere in crisi i fragili equilibri di potere del capitalismo globale.
L’elezione di Trump e il siparietto tragicomico che ha caratterizzato le elezioni americane di novembre 2024 ne è un esempio lampante: uno scontro deprimente tra un vecchio dinosauro costretto a farsi da parte in corsa e la roboante forza del “tycoon” – il magnate in italiano – il canto del cigno della destra globale, simbolo dell’incapacità dell’élite americana di accettare il fallimento del neoliberismo che si vede quindi costretta a puntare sul populismo e sulla disinformazione per ricollegarsi ai valori più reconditi di un popolo in crisi di identità da cui però possono dipendere i possibili futuri del mondo.
I primi mesi dell’amministrazione Trump hanno infatti messo gli ultimi chiodi sulla possibilità di gestire le grandi crisi globali all’interno della comunità internazionale: il nuovo POTUS ha infatti deciso di recedere da importantissimi trattati internazionali come gli accordi di Parigi o dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre alla stupidissima guerra dei dazi imposti in modo raffazzonato per poi correre ai ripari, o il piano reso pubblico per rendere Gaza una spiaggia per turisti americani (e israeliani).
Che sia solo il risultato di un folle al Governo o il frutto di una strategia ben organizzata per tenersi a galla durante la fase di transizione ad un mondo multipolare in cui la Cina, l’Asia sud-orientale, il Sud America e l’Africa stringono relazioni fruttuose che isolano i colossi coloniali, sarà solo il tempo a dircelo. L’unica certezza è che siamo di fronte al crepuscolo di un sistema e non sappiamo se dalle crepe si potrà mai intravedere la luce o se rimarremo solo con cocci taglienti in mano.
Non tanto meglio comunque se la passa il vecchio continente, che sta attraversando una fondamentale crisi di identità: l’Unione Europea sembra sempre di più un gigante stanco, arrivato alla fine della vita, che continua a camminare incessante perché ha paura che fermandosi non riuscirà più a rialzarsi.
La Brexit ha iniziato un processo di lacerazione politica profonda, una ferita difficile da rimarginare in una realtà, quella europea, che ha sempre rifiutato di fare il passo in più verso la maturità federale, chiudendo il cerchio immaginato dai padri fondatori. Il Covid, la gestione dei flussi migratori, l’invasione russa in Ucraina, il genocidio israeliano e le continue crisi economiche hanno fatto il resto: la realtà ha mostrato che il re è nudo, e che oltre le litanie del 9 maggio e qualche flebile tentativo di rivendicare una supremazia europea sul modello dello Stato nazione, c’è ben poco su cui costruire un futuro basato su diritti, pace, progresso e sviluppo sostenibile.
È la postura stessa dell’Unione Europea che sta cambiando inesorabilmente: le destre populiste avanzano senza sosta ridisegnando la geografia politica e democratica degli Stati, mentre con il nuovo patto per la migrazione e l’asilo si è sancita la definitiva involuzione dei confini del continente, che potranno essere attraversati solo da merci e non da essere umani. O almeno non da esseri umani poveri.
Un altro caso emblematico è il conflitto ucraino, in cui il gigante europeo è stato tenuto in stallo per tre anni da NATO e Russia, incapace di avere una voce unitaria a supporto del popolo ucraino. Ancora più critico però, se possibile, è il doppio standard trainato dalle lacrime di coccodrillo tedesche, ma ben presente in tutte le élite politiche del continente, riguardo la pulizia etnica compiuta da Israele nei confronti del popolo palestinese. Nonostante un documentario abbia mostrato l’orrore delle occupazioni in Massafer Yatta e Internet sia ormai piena di video quotidiani di violenze di ogni genere compiute dall’esercito e dai coloni israeliani, l’Unione Europea non accenna a diminuire le comande militari a supporto della macchina bellica di Netanyahu e le relazioni commerciali con uno Stato che si sta macchiando di terribili crimini contro l’umanità. Emblematico è il caso della condanna della Corte Penale Internazionale nei confronti del leader israeliano, non ratificata, tra gli altri, anche dall’Italia, e quindi nulla dal punto di vista legale e operativo, oltre che il caso di spionaggio fatto dal Governo italiano ai danni di svariati attivisti per i diritti umani usando il software di spionaggio della Paragon Solutions, una azienda israeliana.
Ed è proprio nell’area geografica che impropriamente chiamiamo “medio-oriente” che sembrano oggi giocarsi gli equilibri del mondo: dalla resistenza palestinese passa un messaggio di speranza per chi si oppone all’oppressione del capitalismo machista, mentre crollano gli idoli dell’Occidente incapace di fare pace con il proprio passato coloniale.
Inoltre, nell’indifferenza generale degli analisti geopolitici, nuove alleanze ed equilibri si creano dalla Turchia al Golfo persico, mentre dall’Africa risuona forte lo stimolo indipendentista del leader Traoré e tra India e Pakistan riesplode la tensione militare.
La sensazione è di trovarsi di fronte ad un’alba un po’ nuvolosa, in cui il sole fa fatica a levarsi compresso da cumulonembi di violenza e oppressione. Ma soprattutto un’alba confusa, per cui sarà necessaria tutta la competenza, la cura e la solidarietà che riusciremo a costruire per affrontare sfide che ancora non ci sono chiare, o che se ci sono chiare non abbiamo la forza di affrontare.
Ma in fondo si sa che la storia è una fabbrica di dubbi e noi abbiamo il compito di riempire il futuro di sogni per compensare.