1. La strada racconta
2. Un’altra goccia d’acqua
In questa mia prima giornata a Jenin sfortunatamente non ho avuto modo di sentirmi particolarmente utile. Il mio referente locale ha insistito per mostrarmi la città e “take it is”, prendersela con comodo per questo primo giorno. Ovviamente non immaginavo che “visitare la città” significasse passare a salutare, di casa in casa, di negozio in negozio, tutti i suoi amici e le rispettive famiglie. La prima tappa è stata un campo vicino al checkpoint per Nazareth, inizialmente non mi era ben chiaro come mai stessimo uscendo dal centro per vagare nei campi. Le strade in questa zona non sono asfaltate e quando lo strato di polvere mi ha permesso di vedere meglio quello che avevo di fronte ho capito. All’epoca degli ottomani in quel punto scorreva un fiume. Questo fatto è testimoniato dalla presenza delle macerie di un ponte completamente distrutto dai carri armati israeliani. Quello dell’acqua è un problema molto serio qui in Palestina. Tutti i pozzi e le principali fonti d’acqua si trovano in territorio israeliano o sotto il controllo dello Stato d’Israele. Per questo sui tetti dei vari edifici sono presenti tanti container neri quanti sono gli appartamenti dell’edificio. Dentro ogni casa si ha libero accesso all’acqua corrente, con il piccolo inconveniente che quando quella presente nel container finisce non puoi averne altra. Ma soprattutto non ti è dato sapere quando questo verrà riempito di nuovo. La distribuzione dell’acqua è a discrezione dello Stato d’Israele sebbene, secondo l’articolo 40 degli accordi di Oslo del 1993, le due entità territoriali dovrebbero poter utilizzare in egual modo le risorse idriche del territorio. Al contrario i dati raccolti dalla Banca Mondiale fra il 2008 e il 2009 ci dicono che Israele utilizza una quantità d’acqua quattro volte superiore a quella che concede ai territori palestinesi nonostante la popolazione israeliana sia inferiore (anche se non di molto) rispetto a quella araba. Come avrete già immaginato, del fiume ai piedi di Jenin che scorreva sotto il ponte ottomano adesso non c’è più alcuna traccia.
Lo stesso rapporto della Banca Mondiale sottolinea che questa è una delle principali cause di povertà di questi territori. Un maggiore accesso all’acqua permetterebbe l’aumento delle zone coltivabili e quindi darebbe una leggera spinta all’economia del paese. Ovviamente un tale margine di autonomia non è auspicabile dallo stato occupante.
Dopo il nostro delizioso kebab di mezzogiorno abbiamo cominciato il giro degli amici. L’ospitalità di queste persone è disarmante. In ogni casa ci sono stati offerti dolci, caffè, frutta o thè, che ovviamente non si potevano rifiutare. Sfortunatamente la maggior parte delle persone che ho incontrato oggi non parlava inglese ma, da quello che mi veniva racconto dal mio referente, sono tutti “rifugiati di seconda generazione”. Le famiglie della maggior parte di loro vengono da Haifa nel nord del paese, occupata fin dal 1948. Da quello che mi è stato detto da Saabira, moglie di Omar, la maggior parte dei loro genitori erano bambini quando sono scappati. Chi poneva resistenza o cercava di difendere la propria casa veniva ucciso. Questa è stata la sorte del nonno di Saabira, per esempio, che non voleva andarsene. La moglie, dopo la morte del coniuge è fuggita in Giordania con i figli. Il padre di Saabira, appena sposato, si è trasferito in America negli anni ’70, quando la situazione in Medio Oriente cominciava ad essere davvero invivibile. Saabira è una delle fortunate palestinesi con cittadinanza americana. Torna in Palestina tutte le estati ma solo per qualche mese. Sa di essere una privilegiata. Non a caso la prima cosa che mi dice è “I’m not a real Palestinian”. Ciononostante, quando passa i checkpoints con il suo preziosissimo documento americano non le viene risparmiato un interrogatorio estenuante. “Non mi piace essere trattata in questo modo, come se non fossi una persona, dando per scontato che potrei essere una terrorista.” Non c’è alcun tipo di privacy quando vieni sottoposto a questi controlli, lo Stato di Israele ha accesso a tutti i dati che riguardano persone di origine palestinese, anche se la loro cittadinanza è di un altro paese. “Alla fine se devo scegliere fra trascorrere una giornata a Gerusalemme o restare a Jenin che conosco come le mie tasche, preferisco rimanere qui”. Lei può sceglierlo, non è costretta a passare controlli quotidiani per andare a lavorare e anche se trovassero qualcosa su di lei, in quanto cittadina americana, difficilmente potrebbero fare molto di più che negarle l’entrata in Palestina. Non è così per tutti.
F.S.
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