GIORNALI SCADUTI – HAREM, TRA ORIENTE E OCCIDENTE

Giornali scaduti(1)

Ho ritrovato poco tempo fa un bellissimo articolo di Natalia Aspesi del 2000. Bello innanzitutto perché fa scoprire Fatema Mernissi, una donna davvero interessante, una coltissima marocchina profonda conoscitrice della letteratura e della storia araba antica.(2)
Nel 1996 è salita alla ribalta con un fortunato libro autobiografico La terrazza proibita, e nel 2000 è stato pubblicato L’harem e l’Occidente, un saggio che fa riflettere su una diversa subalternità femminile in Oriente e in Occidente.
In quest’ultimo libro la sua tesi, intrigante e provocatoria, è che anche in occidente le donne abbiano un personale chador che le relega in una posizione di disagio e frustrazione. La schiavitù delle occidentali consisterebbe nella «ossessione per la bellezza», nell’attenzione costante al proprio aspetto che comporta il tentativo di dimostrare di essere giovani, di essere come le donne della pubblicità. Se in buona parte del mondo mussulmano, afferma la Mernissi, si può parlare di invisibilità pubblica delle donne, la prigione in occidente è quindi quella del tempo.

Paradossalmente, secondo Fatema, la donna mussulmana ha usato la sua invisibilità pubblica per conquistare spazi e potere nel mondo del lavoro, soprattutto nei settori della scienza. La scrittrice segnalava infatti che ci sono più docenti universitarie in Egitto che in Francia e Canada e la percentuale di studentesse di ingegneria in Turchia e Siria è il doppio di quella in Olanda e Inghilterra. Un terzo degli scienziati e tecnici della repubblica islamica dell’Iran sono donne velate e in Kuwait, tanto arretrato per quanto riguarda i diritti, il 36% della forza lavoro scientifica è costituita da donne.

Sono stata così colpita dall’articolo della Aspesi da aver deciso di leggere entrambi i libri ai quali fa riferimento. Il primo, La terrazza proibita, racconta l’infanzia della protagonista in Marocco negli anni tra la Seconda guerra mondiale e la decolonizzazione.
L’incipit, «Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez», ci proietta nel tempo e nello spazio.
Quello della famiglia Mernissi è molto diverso dagli harem del nostro immaginario, si tratta di una famiglia allargata, che comprende padre e zio della protagonista con le loro mogli e figli, la nonna paterna e le donne sole, vedove o ripudiate. La loro è una casa lussuosa ricca di cortili, fontane, stanze con tendaggi e tappeti. Ma è una vera fortezza. Tutte le finestre danno sul cortile. E la donna vi vive reclusa. Magari molto amata, come nel caso della madre di Fatema, ma reclusa. L’harem della sua infanzia è quindi il luogo della sottomissione delle donne alle quali sono imposte precise regole e la prima è quella di non varcare i “sacri confini” delle mura domestiche.

E infatti il primo capitolo è dedicato ai confini. I confini che le donne non possono varcare.

Poi in alto ci sono le terrazze. È questo lo spazio delle donne. Qui durante il giorno si svolgono tutte le attività. Vi sono le giare delle olive, i pomodori da seccare, il bucato, il ricamo. Questo tra chiacchiere, commenti e anche infuocate discussioni.

Ed è anche il luogo dell’incontro, dove si raccontano e si ascoltano le storie, è il luogo della socialità e del teatro allestito dalle stesse donne dell’harem, nel quale prendono vita le loro eroine, la principessa cantante o l’aristocratica egiziana che ha lottato per l’innalzamento dell’età dei matrimoni e ha ottenuto per le donne il diritto di voto. Grande è l’entusiasmo quando anche i bambini sono chiamati a rappresentare la grande marcia delle donne del 1919.

E ancora più in alto, tanto da essere difficilmente raggiungibile, la terrazza più alta, la terrazza proibita, la terrazza in cui ci si rivelano i segreti, quella in cui si va anche a cercare la solitudine così difficile da avere tra le mura dell’harem.

Sempre più affascinata ho deciso di leggere anche il secondo libro L’harem e l’Occidente, nel quale Fatema ci parla del suo viaggio in occidente e del tentativo di comprendere gli uomini di questa parte del mondo. Anche per me il suo libro è stato un viaggio in un’altra cultura.

E soprattutto è stato un incontro con una donna che ha vissuto in modo tanto diverso dal mio, una diversa formazione, diversi cibi, diversi paesaggi. Eppure mi pare che incontrandola potrei parlare con lei per ore, essere affascinata dai suoi racconti, come quelli tratti dalle Mille e una notte, con l’eroica Sheherazade, e quelli tratti dalle miniature e dalla storia araba con donne forti e volitive. Mi incantano le figure di Zubayda moglie del Califfo Harun ar-Rashid, o la principessa Nur Gian moglie del sovrano mugul del XVII secolo che si fa ritrarre a caccia di tigri, esempi di donne che pur vivendo nell’harem hanno influenzato la cultura e la politica imperiale. Mi incanta Sharin, la principale protagonista della pittura persiana, in costante movimento, che galoppa veloce, che attraversa terre e mari alla ricerca del suo amato Khurshaw. Donne della storia e dell’immaginario islamico che contrastano nettamente con il nostro pregiudizio sulla passività della donna araba.

Dopo il successo del suo primo libro, venendo a contatto con la nostra società occidentale, Fatema rimane piuttosto confusa di fronte all’interesse un po’ morboso e alla visione distorta nei confronti dell’harem e della donna nell’harem. Si documenta Fatema, vuole capire e il suo interesse si focalizza soprattutto sulla immagine per lei assolutamente incongruente che ne hanno dato pittori come Matisse e ancor più Ingres. Davanti al capolavoro di Ingres La grande odalisca la Mernissi è sconcertata. «C’era qualcosa in quell’odalisca che mi irritava: era nuda. Negli harem le donne non sono nude, anzi sono spesso abbigliate in foggia maschile». Perché, si chiede, questa ossessione, questo fantasticare su un harem con donne pigre, passive, che paiono in continua attesa di un contatto erotico? Perché all’inizio del Novecento quando in Turchia le donne ottenevano il diritto al voto e i Giovani Turchi lottavano contro l’harem Matisse dipinge le sue Odalische come immagini di “seduzioni incarnate”? «Le passive donne turche di Matisse erano solo nella sua fantasia».

Della Mernissi mi conquista la passione con cui vuole farci comprendere la sua cultura, ma mi conquista anche l’ironia che appare più scoperta nell’ultimo capitolo in cui con un sorriso un po’ provocatorio scopre la subalternità della donna occidentale, la subalternità alla taglia 42. È in una boutique di New York che avviene un paradossale dialogo con una commessa e le viene detto che è troppo grossa per le gonne del negozio alla moda. «Lei è troppo grossa signora» «Troppo grossa rispetto a cosa?», «Le taglie 40, 42 sono la norma, la norma è dappertutto mia cara, su tutte le riviste, in televisione, nella pubblicità».
«Mi resi conto che la taglia 42 è una restrizione ancora più violenta del velo mussulmano… Mentre l’uomo mussulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile, l’uomo occidentale manipola il tempo».

La donna bambina è l’ideale di bellezza che condanna all’invisibilità la donna matura.

Del resto anche in Occidente negli stessi anni troviamo analisi che possono essere accostate a quelle della Mernissi.
In un articolo del 2000, Miriam Mafai fa un bilancio della rivoluzione femminista degli anni Settanta. Le donne nella nostra parte del mondo sono uscite dallo stato di segregazione, di minorità in cui erano ridotte da secoli, uscite da quello spazio privato, «loro destinazione sostanziale» per Hegel, hanno conquistato tutti i diritti, politici, civili, sociali. È stata quella femminile l’unica rivoluzione pacifica e l’unica non fallita del Novecento. Eppure…
Eppure c’è ancora una grande trappola, afferma la Mafai, ed è quella della omologazione con il mondo maschile, con i suoi valori.
Ed è la stessa trappola che vede Germaine Greer, autrice femminista di L’Eunuco Femmina, un libro molto popolare alla fine del Novecento. Secondo la Greer, le donne non si sono affatto liberate come era nelle speranze del movimento femminista degli anni Settanta, ma anzi sono state assimilate all’universo maschile, sono oggi ciò che l’uomo vuole che esse siano. Insomma denuncia con amarezza: «Noi donne siamo state sconfitte dai tacchi a spillo».

Rosalba Granata

Note:

  1. Riordino ritagli. Mille frammenti di articoli, immagini che ho accumulato. La motivazione era sempre che mi potevano essere “utili”… La scuola, i ragazzi, nuovi spunti da utilizzare. Una mostra sui futuristi, un articolo su cinema, letteratura e cibo, un personaggio che veniva “celebrato” da Obama, a Berlinguer, da Pertini a Jobs… e poi un avvenimento di attualità, magari una catastrofe naturale o uno scandalo, la fame nel mondo, l’elogio della gentilezza e della mitezza, della democrazia, i diritti, un commento di Rodotà, e poi don Ciotti o Petrini che “fanno più politica dell’intero gruppo dirigente PD…” e gli articoli, le immagini si accumulavano una sull’altra… Il senso della storia, la strumentalizzazione della storia, memorie della Resistenza… Sì questo lo devo assolutamente utilizzare domani in classe… E poi venivano ricoperti da altri articoli, appunti, progetti, verifiche su Foscolo con o senza crocette… fogli fogli che si accumulavano. Che mi sembravano essenziali, e poi …. dimenticavo.
    E poi ho cercato di mettere ordine. Butto, poco, rileggo, tanto. E ritrovo ritrovato qualche “perla”. Almeno per me. Ricollego. Non vengono discorsi sistematici ma flash. Ricordi. Che si possono collegare al presente o aiutare la memoria di un recente passato.
  2. Nata a Fez nel 1940. È stata sociologa e studiosa dell’Islam, si è sempre distinta per le coraggiose prese di posizione a favore della libertà femminile, che giudica perfettamente compatibile con il Corano. Ha completato la sua formazione alla Sorbona e alla Brandeis University negli Usa. Ha insegnato all’università Mohammed V di Rabat in Marocco.

ARTICOLI

Aspesi, Un velo per le donne c’è anche in Occidente. Repubblica 27 settembre 2000.

Mafai, Femminismo così tramonta la rivoluzione. Repubblica 3 novembre 2002.

A. Polito, Noi donne sconfitte dai tacchi a spillo. Repubblica 3 marzo 1999.

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