LA FAMIGLIA CHE UCCIDE

2016-10-29_101440L’Italia s’interroga, da molti anni ormai, su cosa sia la famiglia, su cosa si intenda per matrimonio, su cosa è naturale e cosa è positivo, su molto altro ancora e su come tutte queste istanze vengono giocate nella vita quotidiana di ognuno di noi. Sono tematiche dirimenti, per la vita pubblica e per quella personale, su cui numerosi esponenti politici e diversi esponenti della così detta società civile hanno espresso svariati pareri. Vogliamo entrare in questo dibattito, ma vogliamo farlo a modo nostro, non in maniera belligerante; al contrario, quello che a noi interessa è fornire quanti più strumenti possibili per riuscire a decodificare i nodi cruciali di quanto sta accadendo. Ci interessa seguire una modalità quasi socratica, interdisciplinare come sempre, attraverso cui sottoporre alla vostra lettura diversi spunti e suggestioni culturali da cui ognuno potrà trarne ciò che vorrà.

Questo nostro percorso è stato inaugurato da Marta Franceschini, con un articolo incentrato sulle primordiali società matrifocali. A coglierne, idealmente, l’eredità è stato poi Francesco Colombrita, il quale ha mostrato come la Dea primigenia sia sopravvissuta e si sia declinata nelle successive società patriarcali. Luca Ballandi ha invece posto l’accento sull’annoso problema del rapporto tra natura e cultura, tra le scienze sociali e quelle della vita: l’obiettivo è stato quello di fornire nuovi e altri strumenti d’approccio alle tematiche qui presentate. Rosalba Granata ha invertito ancora una volta la rotta, scrivendo di fantascienza per approcciarsi al possibile e alle meraviglie in esso celate.

In questo quinto contributo, Patrizia Bonfiglioli scrive di psicoanalisi e psichiatria attraverso il commento a un libro che l’ha colpita e turbata: ‹‹La famiglia che uccide›› di Schatzman diviene così la scintilla per attivare una più complessa riflessione su cosa significhi crescere in famiglia, sull’educazione e sulla pedagogia, tutte istanze che oscillano tra libertà e costrizione.

Mattia Macchiavelli

1. ‹‹La più grande bugia dell’umanità sull’origine dell’umanità›› di Marta Franceschini

2. ‹‹La madre alle spalle di Zeus›› di Francesco Colombrita

3. ‹‹La brutta natura›› di Luca Ballandi

4.  ‹‹Fantascienza e meraviglie del possibile›› di Rosalba Granata

LA FAMIGLIA CHE UCCIDE

Mi si è offerta l’occasione, recentemente, più per caso che per scelta, di rileggere il saggio La famiglia che uccide di Morton Schatzman. Discorrendo con un’amica di tematiche relative alla famiglia, mi è ritornato in mente questo libro che avevo letto tanti anni fa, da giovanissima, in un periodo in cui ero interessata alla psicoanalisi e leggevo, in maniera un po’ affabulatoria, tutto ciò che reperivo sull’argomento. Questo saggio mi procurò un senso di fastidio (forse difensivo) e non mi piacque. Pertanto l’ho riaperto con ritrosia e distrattamente ne ho iniziato la rilettura. Ritrosia e distrazione sono scomparse dopo poche pagine, sostituite da un interesse nuovo, da una curiosità, un atteggiamento, una consapevolezza completamente diversi da quelli dei miei vent’anni. Accade frequentemente, se non proprio sempre, che la rilettura di un libro a distanza di numerosi anni ci presenti quasi uno scritto diverso, semplicemente perché diversi siamo noi. Così è accaduto con La famiglia che uccide; con sorpresa ho trovato non un nuovo libro, bensì una nuova persona, con una maturità diversa e con aspetti della personalità tali da accogliere il saggio con una prospettiva mutata. Il libro mi ha ancora turbata, ma nello stesso tempo affascinata. La vicenda che presenta, e la relativa analisi di Schatzman, mi hanno condotta a riflettere su temi inquietanti. D’altronde è un libro inquietante, lo è tuttora, a distanza di quarant’anni.

schreberDaniel Paul Schreber (1842-1911), eminente giudice, a 42 anni impazzì, riproducendo nelle proprie espressioni psicotiche la terribile “educazione” ricevuta dal padre durante l’infanzia. Il padre, Daniel Gottlieb Moritz Schreber, era un  famoso medico che aveva pubblicato numerosi scritti pedagogici di successo nella Germania prenazista. In essi aveva elaborato un sistema educativo fortemente repressivo, che applicò ai figli maschi: uno impazzì, l’altro si suicidò. D.P. Schreber scrisse un libro di memorie che è divenuto un classico della psicoanalisi per gli studi sulla paranoia. casi-clinici-6-il-presidente-schreber-psicologia-psichiatria-sigmundFreud lo lesse e avendolo come fonte, scrisse uno dei suoi casi clinici più famosi, Il presidente Schreber, che costituisce una prima interpretazione sulla paranoia. Freud analizzò tali memorie, senza allargare la propria indagine al contesto famigliare ed educativo in cui Schreber figlio si trovò a vivere, persuaso che la paranoia fosse il risultato di una difesa contro l’omosessualità repressa. Schatzman, al contrario, nel saggio La famiglia che uccide effettua un’analisi attenta dell’ambiente famigliare, in particolare dei rapporti padre-figlio, attingendo le informazioni dagli scritti del padre, che dimostrano come in tale rapporto, di carattere autoritario, repressivo, violento stesse la causa della pazzia del figlio.

Le opinioni di Schreber padre sull’educazione ricordano molto quelle del filosofo tedesco Fichte, il quale è considerato precursore del nazismo; opinioni che si possono riassumere in obbedienza all’autorità, mascherando la sottomissione sotto forma di libertà.

È interessante notare che Hitler e i suoi seguaci furono allevati quando i libri di Schreber, che predicavano appunto un totalitarismo famigliare, erano molto popolari.

fucile-shreber-bajaAfferma Schatzman: ”Il mio studio è un tentativo di collegare la mente di un adulto, considerato pazzo, al comportamento del padre verso di lui quando era bambino”. E nel diario di Schreber figlio leggiamo: ”Quando la mia malattia di nervi sembrava pressoché incurabile, raggiunsi la convinzione che un assassinio d’anima era stato compiuto su di me da parte di qualcuno”.

Quando lessi questo saggio a poco più di vent’anni lo percepii come un problema esclusivamente psichiatrico, pertanto legato a quella singola esperienza. La rilettura attuale ha agito in senso quasi opposto: ho perso di vista l’aspetto psichiatrico, psicoanalitico e si sono aperti, invece, scenari diversi, legati al tema dell’individualità nella sua libera espressione. Ne è nato un interesse (o meglio un’inquietudine) di carattere pedagogico e psicologico in senso lato, ha cioè risvegliato problematiche, dubbi di natura intima che esulano dalla tradizionale interpretazione psicoanalitica; è in questa chiave di lettura che ora ne parlo.

Il caso Schreber è eccezionale, è un caso estremo, questa è la prima riflessione che viene in mente. A ben riflettere, tuttavia, ci si accorge di quanto possa essere vero il contrario, cioè l’universalità del problema.  Quando una persona (e ora che scrivo penso proprio a me) giunge a una età nella quale gran parte della vita sia già stata vissuta, è auspicabile che possa credere di aver vissuto la propria vita, non quella di altri che in qualche maniera, corretta o scorretta, conscia o inconscia, gliel’hanno imposta. In semplici parole: in quale misura l’influenza dell’educazione dei genitori o di altri adulti significativi ha determinato la nostra personalità, le nostre scelte, finanche le nostre gioie e i nostri dolori? In quale misura siamo stati e siamo liberi?

memorieSe è vero, e sappiamo esserlo, che gran parte del nostro vivere è il risultato di un adattamento nei confronti di determinate situazioni dell’infanzia, l’individuo ripete in maniera coatta le forme di relazione che hanno caratterizzato l’infanzia. Come afferma Schatzman tutta la pazzia di Schreber è un’immagine della guerra combattuta dal padre contro la sua indipendenza. D’altronde il nesso famiglia-psiche infantile è il fondamento della psicoanalisi, basti pensare allo stesso Freud, alla Mahler, a Laing, a Winnicot e a tutti i grandi psicoanalisti della tradizione. Ogni bambino, pur senza subire i comportamenti autoritari e violenti del padre di Schreber, cresce dominato dalla propria famiglia; sia la famiglia autoritaria, sia quella permissiva procurano un’impronta indelebile. L’individuo incorpora il passato e questo passato agisce, agirà per tutta la vita. Gli eventi che allontaniamo dal campo della coscienza, sono solo apparentemente eliminati, in realtà vivono nella nostra mente. Sia un adattamento passivo all’influenza genitoriale, sia un’opposizione forte a essa, costituiscono una scelta parziale, una non scelta. Siamo allora dei cloni delle figure genitoriali? E la nostra libertà di scelta come si esercita? In quale misura? Con quali strategie? Escludendo che ogni individuo possa sottoporsi a un lungo e costoso (e riuscito) percorso psicoanalitico per uscire da questo circuito, come possiamo giungere a una chiara consapevolezza di noi stessi? Come scegliere la propria vita? Come comprenderne il senso? Un senso che viene messo in discussione.

Non ho risposte a queste domande acuite dalla rilettura del saggio di Schatzman, ho solo dubbi, nessuna certezza.

È necessario aggiungere, inoltre, che il bambino incontra altre figure formative, mi riferisco in particolare agli insegnanti. L’argomento che tratta Schatzman tocca una serie di problematiche molto vaste, dalla psicologia alla psicoterapia, alla pedagogia, alla filosofia; pertanto solleva una serie di problemi, non ultimo, come dice Enzo Cotignola nel breve saggio in coda al libro, “fino a che punto la repressione è non solo caratteristica del modello schreberiano, ma intrinseca a qualsiasi pedagogia… Si torna a un problema  permanente della pedagogia, quello di ciò che si tramanda e della sua relazione con il modo di tramandarlo, delle linee di corrispondenza fra un certo sistema sociale ed i suoi modelli educativi, dello spazio concesso all’originalità ed alla creatività dell’individuo”. Certo la tesi di Schatzman è un po’ provocatoria, ma il problema, come sa chiunque abbia insegnato nell’istituzioni scolastiche, esiste. L’adattamento dell’allievo, in particolare del bambino e del pre-adolescente, a determinate situazioni di apprendimento può condurre a comportamenti pericolosi: passività, depressione, aggressività… Atteggiamenti che influenzeranno il suo iter scolastico, i rapporti con i coetanei, infine la sua  stessa vita. Ho verificato, come insegnante e come persona, ciò che afferma Schatzman: “L’opinione che i genitori (e io aggiungo gli insegnanti) hanno di noi durante la prima infanzia, può influenzare il modo in cui ci vediamo per tutta la vita”.  

Ho riposto il saggio di Schatzman in libreria, nel ripiano alto in cui stanno libri che ritengo di non rileggere più; molte incertezze, però, sono rimaste con me. Tuttavia nel quadro generale di questa esperienza, generatrice di fascinazioni inquietanti, un aspetto sicuramente gratificante c’è stato: la nostra vita è un percorso, spesso dimenticato in numerose sue parti; la rilettura di libri significativi aiuta, nel risvegliare ricordi, rimozioni, nel confronto tra il prima e il dopo, a ritrovare il filo, a ricostruire una linea psicologica, culturale, comportamentale, più o meno confusa sì, ma utile comunque per la consapevolezza di sé, proprio per giungere a quel minimo di libertà che tutti auspichiamo.

Patrizia Bonfiglioli

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