ANDARE OLTRE: RICONOSCERE L’OPEROSITÀ COME ASPETTO COMUNE A TUTTI E ACCOMPAGNARNE LO SVILUPPO IN OPEROSITÀ PRODUTTIVA

di Angelo Errani

In questi anni stiamo registrando un cambiamento culturale profondo che rischia di annullare le conquiste di giustizia sociale realizzate negli ultimi decenni del ‘900. Viviamo il passaggio da un modello sociale costruttivo a un modello sociale competitivo.

Per il modello competitivo, che si è venuto affermando negli ultimi anni, l’esclusione di chi vive una condizione di svantaggio non è più una sconfitta e registriamo un progressivo disincanto rispetto alla prospettiva inclusiva, ritenuta un’idea da sognatori. Uno dei vanti delle politiche di governo è la volontà di restaurare i principi meritocratici. Ma che cosa significa? Significa restaurare il merito di nascita, cioè individuare il più presto possibile i meritevoli a cui offrire tutte le attenzioni, mentre gli altri, gli immeritevoli dovranno essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Il rischio del ritorno della scuola di classe e dell’istituzionalizzazione in luoghi separati di giovani ed adulti è purtroppo la traduzione operativa in progressiva realizzazione delle politiche descritte che viene mascherato con il ricorso al pietismo, una pratica umiliante ed ingannevole che coinvolge le vittime in modo che il loro essere vittime possa sembrare loro una fortuna.

Il modello costruttivo, che si è progressivamente affermato sulla spinta delle lotte sociali della seconda metà del secolo scorso, aveva come riferimento il superamento di una realtà che richiedeva luoghi separati a cui destinare le persone classificate come bisognose di trattamenti speciali, promuovendone un affrancamento dalla medicalizzazione e consentendo a chi subiva la violenza dell’istituzionalizzazione di diventare compagno di banco, collega di lavoro, vicino di casa, amico nei contesti di vita comuni a tutti.

Negli anni ’70 realizzammo l’integrazione scolastica che ha consentito a tutti i soggetti con disabilità o con svantaggi collegati a condizioni culturali e/o sociali di frequentare le scuole comuni e il superamento della violenza dell’internamento di bambini ed adulti in luoghi separati che ne facevano sparire l’esistenza. (1975 Legge sull’Integrazione scolastica Governo Aldo Moro. 1978 L. 180 Superamento delle Istituzioni totali. Tina Anselmi).

Cresceva inoltre la consapevolezza che l’integrazione scolastica non esauriva l’impegno e che non potevano mai più essere accettati depositi in cui collocare dopo la scuola chi, avendo una disabilità, entrava nell’età adulta. Ne derivarono esperienze diffuse di realizzazione professionale, di autonomia abitativa, di partecipazione ad attività culturali, sportive e ricreative inclusive. Per chi cresceva avendo una disabilità occorreva superare il destino di venire considerato, e di conseguenza trattato, come un eterno bambino, accompagnandone la crescita verso una realizzazione adulta che, per essere tale, non poteva non comprendere la realizzazione professionale. Occorreva dunque individuare un percorso fra un presente in cui la realizzazione professionale per la maggioranza delle persone disabili veniva pensata impossibile e veniva ritenuta un peso dalle aziende obbligate all’assunzione per legge e la sperimentazione di possibilità occupazionali che convenissero a tutti.

Con la Legge 68 del 1999 si aprì la stagione di una nuova logica: superare l’obbligatorietà per le aziende attraverso la strategia del collocamento mirato, cioè con la ricerca di un collegamento fra le competenze della persona ed i bisogni dell’impresa, dell’inserimento mediato, cioè la formazione in azienda con il contributo di un tutor, e la collaborazione inter-istituzionale, cioè il mettere insieme le diverse risorse e competenze delle istituzioni del territorio. ( 1999 L.68 Governo D’Alema, Ministro Livia Turco )

Negli anni che seguirono, l’Università di Bologna, la Provincia di Bologna ed AILES (Associazione per l’Inclusione Lavorativa e Sociale) condussero una ricerca per scoprire i cambiamenti intervenuti sul nostro territorio con il cambio di logica e, in base ai dati raccolti, attribuirono a numerose aziende il riconoscimento di Azienda Solidale e la Città Metropolitana di Bologna ha istituito l’Albo Metropolitano delle Aziende Socialmente Responsabili del nostro territorio.

Si è trattato di una tappa importante. Ma permaneva un’ingiustizia e l’ingiustizia non può mai essere sopportata. Restavano tante le persone definite inoccupabili che per una compromissione di funzioni rilevanti o per condizioni di fragilità conseguente a condizioni di salute o di eventi drammatici intervenuti nel loro percorso di vita sembrava che dovessero rimanere imprigionate in questa condizione. Occorreva ricercare alternative rispetto ad un destino limitato all’assistenza che sembra definitivo.

Fu Andrea Canevaro a proporre una riflessione riguardo a ciò che pregiudizialmente riteniamo impossibile e a suggerire il concetto di operosità produttiva.

Il concetto di operosità contraddice un’idea che convenzionalmente riteniamo ovvia e cioè che ci sarebbero delle persone prive delle caratteristiche ritenute indispensabili per un’attività lavorativa. E’ un pregiudizio che ci fa rimuovere il fatto che l’operosità, pur con caratteristiche e misure diverse è presente in tutti. Si tratta del pregiudizio per cui per molte persone disabili non si è poi realizzata l’opportunità di potersi riconoscere e di poter venire riconosciute come socialmente utili. La loro operosità è stata limitata ad attività occupazionali, più interessate ad occuparne il tempo che a consentirne una realizzazione professionale. Il pregiudizio di inoccupabilità di tante persone determina anche un danno economico. Essendo infatti l’operosità un dato presente in tutti, il non finalizzarla ad attività produttive comporta inevitabilmente lo spreco di risorse umane di cui la società avrebbe tanto bisogno. Le necessità richiamate dalla cura dell’ambiente e dalla cura delle persone in difficoltà non ci consentono questo spreco. Il pregiudizio di inoccupabilità nasce dal ritenere le persone capaci o non capaci indipendentemente dalla loro storia, dai contesti di vita che, se sono ideati e organizzati secondo le caratteristiche della maggioranza, escluderanno inevitabilmente chi non ha quelle caratteristiche, dalla formazione di cui hanno avuto l’opportunità di avvalersi e dalla possibilità di sperimentarsi in situazioni di lavoro. La maggior parte delle nostre competenze non le abbiamo forse acquisite lavorando? Non è così forse che siamo diventati capaci di far quel che oggi siamo in grado di fare? Se riconosciamo che la nostra operosità si è rivelata incrementabile spesso imparando da chi lavorava al nostro fianco perché non lo dovrebbe essere per tutti?

Con la proposta C.O.P. (Centri di Operosità Produttiva) Andrea Canevaro ha valorizzato il ruolo di protagonista della Cooperazione Sociale. E’ la Cooperazione Sociale infatti che si è costruita negli anni le competenze per mettere in relazione la cura dell’ambiente e dei servizi con la formazione e promozione lavorativa delle persone a rischio di esclusione sociale. E’ dunque la Cooperazione Sociale che può curare il collegamento, una rete di Filiere fra i Centri di Operosità Produttiva e le Aziende dei diversi territori comprendendo ovviamente anche le cure per l’ambiente e i servizi territoriali.

E’ da questi riferimenti concettuali che è nata la ricerca che in questi ultimi anni stanno conducendo in collaborazione il CeDEI (Centro studi e ricerche Disabilità Educazione Inclusione) dell’Università di Bologna, AILES ed alcune Cooperative Sociali del Territorio che nella primavera del 2024 hanno ricevuto il riconoscimento C.O.P. (Costruire Operosità Produttiva).

Grazie alla cura dedicata ai contesti, l’operosità di tante persone ritenute inoccupabili è stata resa visibile e riconoscibile nei prodotti o nei servizi realizzati. Un’operosità, che in molti casi poteva apparire anche molto limitata, ha avuto l’opportunità di esprimersi grazie al contributo di ciascuno in filiera con il contributo degli altri e di venire riconosciuta socialmente come produttiva perché collegata ai bisogni del territorio di cui si fa parte. Ne sono esempi i servizi di ristorazione collegati ad un territorio con moltissime piccole aziende senza il servizio mensa, la produzione di pasta fresca e dolci, le coltivazioni di ortaggi, piccoli allevamenti, cura del verde collegati ai bisogni di esercizi commerciali ed abitanti di diversi territori. Dunque un vantaggio per tutti. L’apporto nella misura e nella modalità possibile di ciascuno fa anche evolvere i contesti economici e sociali d’appartenenza e produce il riconoscersi e il venire riconosciuti utili.

Non è il punto d’arrivo, è solo la tappa di un percorso. Occorrerà curarsi di tradurre le esperienze in proposte di legge, in contrattazioni che coinvolgano i sindacati, perché l’assistenza evolva in riconoscimento della produttività e in dignità sociale. Un percorso impegnativo ma che, come avviene in un percorso di montagna, giungendo al tornante successivo ci permette di vedere un po’ più di orizzonte. Un orizzonte possibile?

Se ci voltiamo indietro possiamo vedere quanti impossibili sono diventati possibili: cerebrolesi che erano ritenuti incapaci di pensare perché non parlavano, persone Down per le quali sembrava impossibile diventare adulti con autonomie e tanti altri.

Vorremmo forse credere che tutto il possibile sia terminato? Abbiamo finito di esplorare?

(Canevaro A. 2017)

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