di Angelo Errani
Lo sguardo che quotidianamente intercorre fra le persone e lo sguardo nel mirino della macchina fotografica o della cinepresa possono essere educati all’accoglienza, a richiamare appartenenza, ma possono anche contribuire a suggerire lontananza e, di conseguenza, disumanizzare.
Accorsero in massa, lo si guardò senza osservarlo, lo si giudicò senza conoscerlo e poi non se ne parlò più. (J.M.Itard, 1801)
Sono le parole con cui J.M.Itard descrive ciò che accadde al ragazzo trovato nei boschi dell’Aveyron, quel “selvaggio” a cui il giovane studioso, che ne chiese l’affidamento per sperimentarne l’educabilità, diede il nome di Victor: in un primo tempo oggetto di morbosa curiosità e poi subito dimenticato.1
François Truffaut, che nel 1969 curò la sceneggiatura e la regia del film attenendosi scrupolosamente alle “relazioni” di Itard, dedicò una scena alla curiosità morbosa dei cittadini di Parigi che affollarono l’Istituto Nazionale dei Sordo-muti in cui era stato rinchiuso il bambino.
La scena sottolinea una modalità molto comune della rappresentazione della disabilità da parte della comunicazione cinematografica: la disabilità proposta come fenomeno da esibire, oppure nascosta, negata. Nell’uno e nell’altro caso le persone disabili vengono ridotte a categoria, cancellandone gli aspetti comuni a tutti. Si tratta di una modalità di rappresentazione che si è riproposta nel tempo con modalità collegate ai cambiamenti culturali e sociali che si sono avvicendati, producendo quel distanziamento sociale che anestetizza e legittimando disumanizzazione, violenza e complicità drammaticamente diffuse.
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi debbono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Haftling 174517, sto in piedi nel suo studio, lucido, pulito, ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare. Quando ebbe finito di scrivere alzò gli occhi e mi guardò. Da quel giorno io ho pensato al dottor Panniwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo, come riempisse il suo tempo, all’infuori della polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto quando sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una curiosità dell’anima umana. Perchè quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato attraverso le pareti di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania. Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: <Questo qualcosa davanti a me appartiene ad un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile>.2
Primo Levi sottolinea l’importanza di capire lo sguardo del dottor Panniwitz, viviamo infatti il rischio che, con il venir meno per ragioni anagrafiche dei testimoni, l’Olocausto venga ridotto ad un evento confinabile in un tempo ed in un luogo in cui si erano venute a creare condizioni particolari e, quindi, irripetibili.
L’Olocausto fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura.3
Moni Ovadia richiama l’attenzione sui cinegiornali che venivano proiettati in Germania per far capire ai cittadini tedeschi l’inutilità delle vite di chi, come i bambini e gli adulti disabili ricoverati negli istituti psichiatrici, facevano sprecare risorse. Nei filmati, illustri medici con una terminologia e con modi studiati per conferire autorevolezza alle argomentazioni proposte, indicavano le “buone ragioni” per porre fine alle “sofferenze” di questi “infelici”.
Va sottolineato dunque il ruolo che il cinema ebbe nella produzione sociale di distanza che si rivelò essere una delle condizioni necessarie per rendere accettato come normalità lo sterminio dei “diversi”: i disabili, gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, i comunisti.
Il 22 settembre 1933, sotto la direzione del ministro Goebbels, venne istituita la <Camera per la cultura del Reich> che, da quel momento, avrebbe controllato ogni aspetto della vita culturale: l’arte, la radio, la stampa e, ovviamente, il cinema. Nello stesso anno venne anche promulgata la legge per la prevenzione delle malattie ereditarie che recepì le indicazioni dell’eugenetica e introdusse l’obbligo della sterilizzazione per prevenire la nascita di “bambini malformati” .
Nel film Io accuso, del 1939, si propagandava l’innocenza di un medico che aveva ucciso la moglie invalida. Si sottolineava la saggezza dell’epoca romana in cui tali pratiche erano lecite e delle tradizioni degli antichi germani che consideravano un atto di pietà le uccisioni dei disabili.
[…] in modo da sottolineare l’assurdità di mantenere un personale numeroso e molti edifici allo scopo di far sopravvivere poche miserabili creature.4
E’ singolare la coincidenza fra la realizzazione di un film e ciò che accadeva nella vita reale. Il primo settembre 1939 infatti, nello stesso giorno di inizio della guerra, Hitler diede ampi poteri ai medici e agli avvocati per l’avvio della rimozione forzata della vita senza valore e nella riunione del governo che approvò la decisione nessuno ebbe nulla da obiettare.
Si alza Victor Brack. Con voce sicura, quasi musicale, avvince i presenti: “ Vi prego di avere la bontà di prendere in considerazione i documenti sanitari che state per esaminare: non vi è alcuna speranza per questi abbozzi di vita. Non vi è nemmeno sofferenza. Voglio dire che siamo noi che soffriamo inutilmente per la loro sorte. E’ un lusso di cui noi tedeschi possiamo fare a meno! “ Victor Brack tossisce e ciò ravviva le sue lucide guance. Riprende con voce più forte squillante: “Non sopprimeremo degli esseri umani, ma annienteremo un incubo. Il Fuhrer […] ha firmato il decreto che permetterà, a noi tutti qui riuniti, di concedere finalmente, senza inutili sofferenze, una fine pietosa, un atto di grazia.5
Dietro dizioni medicalizzanti come “Stabilimenti terapeutici ed ospedalieri”, “Fondazione per le cure ospedaliere”, “associazione per il trasporto collettivo dei malati “ si nascondeva il progetto dal titolo assai più prosaico: “Sgombero dei letti”. Una sezione speciale si occupava dei bambini con gravi deficit o disabilità intellettiva la quale si preoccupava di informare per lettera le famiglie sulla morte improvvisa del loro congiunto. Inizialmente i disabili venivano uccisi con un colpo di pistola, in seguito, per evitare “crisi di coscienza degli illustri medici” si mise a punto il sistema dell’asfissia con ossido di carbonio in locali camuffati da sale per la doccia. Fra adulti e bambini furono uccisi in questo modo 700.000 disabili.
Goebbels richiedeva che venissero prodotti film mit scharfen volkischen Konturen (dai contorni razziali senza sbavatura). Raccomandò di far vedere ai giovani Jud Suss (Suss l’ebreo) che raccontava la storia di Suss Oppenheimer, ministro ebreo del Wurttemberg, giustiziato perchè accusato di aver commesso atti di corruzione e di violenza ai danni di un’adolescente.
Anche l’Italia si allineò. Il filosofo Iulius Evola avvertiva del pericolo rappresentato dall’azione demoralizzatrice dei film dell’ebreo Charlie Chaplin e il 17/10/1940 il “Ministero per la Stampa e la Propaganda” ordinava:
E’ fatto divieto di pubblicare copie, articoli e notizie riguardanti i seguenti attori stranieri: Charlie Chaplin, Erich von Stroheim, Bette Davis, Douglas Fairbanks Junior, Mirna Loy, Fred Astaire e la casa cinematografica Metro Goldwin Mayer.
Jean-Luc Godard sostiene che il cinema da un lato non si è trovato nella condizione storica di poter dire al mondo ciò che stava accadendo e, dall’altro, il fatto che ha utilizzato le sue caratteristiche specifiche per servire scopi aberranti. Se infatti osserviamo i cinegiornali prodotti a sostegno dell’eutanasia scopriremo che oltre al contenuto anche la forma concorre a creare asimmetrie: l’operatore riprende i soggetti disabili dall’alto, schiacciandoli e le riprese eliminano il contesto per fissarne l’identità nel deficit; il personale medico viene invece ripreso dalla stessa altezza, con campo medio, per rendere visibili i particolari rassicuranti dei contesti sanitari, le strumentazioni mediche, i libri della biblioteca sullo sfondo.
I rischi che la comunicazione si proponga come strumento di conformismo culturale asservita al potere non sono ovviamente limitati al passato, anzi, in virtù delle sempre più sofisticate tecnologie e alla loro pervasività sono un aspetto assai rilevante della nostra quotidianità. In particolare la comunicazione per immagini.
A differenza della comunicazione verbale, che riconosce gli oggetti pensandoli per convenzione, la comunicazione per immagini rappresenta gli oggetti attraverso l’analogia, la verosimiglianza. Ciò costituisce una risorsa ma anche un rischio. La risorsa risiede nel fatto che la relazione analogica fra le immagini e la realtà non può mai venir meno, mentre il rischio è costituito dall’illusione di realtà che le immagini fanno provare, nascondendo che un testo iconografico è sempre la comunicazione di qualcuno di cui inevitabilmente riflette le convinzioni e/o gli interessi.
C’è dunque un’etica della “grammatica” della comunicazione che consiste nel non sacrificare al potere e al mercato la dignità dei soggetti di cui propone la rappresentazione. E’ importante non dimenticarlo.
- Per approfondimenti vedi J.M.Itard (1995), Il ragazzo selvaggio, Milano, Anabasi.
- Levi P. (1958), Se questo è un uomo,Torino, Einaudi, p.133.
- Bauman Z.(1992), Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, p.11
- Mosse G.L. (1980), Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Roma-Bari, Laterza, p.230.
- Reiner S. (1971), La terra sarà pura, Milano Sugar, p.21.