LA MORTE NERA: CRONACHE DAL MEDIOEVO

di Patrizia Fiocchi

La Peste nella cultura medievale

La Peste, spesso denominata Morte Nera (Black Death), verificatasi in Europa tra gli anni 1347 e 1350, ebbe effetti devastanti sulla popolazione e un notevole impatto sulla cultura medievale nelle sue diverse espressioni.

Le cronache

Gli avvenimenti riportati nelle cronache del periodo vengono considerati dagli storici i ritratti più realistici della peste, e spesso l’unico vero modo di recepire il senso dell’orrore di vivere attraverso una tragedia di tale portata, i cui effetti sulla popolazione d’Europa ebbero grande influenza sulla poesia, la prosa, le rappresentazioni teatrali, la musica e l’arte del tempo, come evidente nelle opere di scrittori come Chaucer in Inghilterra, Boccaccio e Petrarca in Italia, e artisti come Holbein. 

Sebbene la tradizione poetica dell’amor cortese abbia continuato a essere popolare per tutto il periodo, essa cominciò ad affrontare la crescente concorrenza da parte di scrittori ispirati dalle esperienze della Morte Nera. Si trattava di un nuovo fenomeno, reso possibile dal fatto che l’istruzione e la letteratura vernacolare, come pure lo studio del latino e dell’antichità classica, si stavano diffondendo ampiamente, rendendo la parola scritta sempre più accessibile durante il quattordicesimo secolo.

Agnolo di Tura, di Siena, così descrive la sua esperienza della peste:

 «Il padre abbandonava il figlio, la moglie il marito, un fratello l’altro fratello; perché questa malattia sembrava togliere il respiro e la vista. E così essi morivano. E non si trovava nessuno per seppellire i morti né per denaro né per amicizia. I membri di una stessa famiglia nel migliore dei casi portavano i loro morti in una fossa, senza prete, senza preghiere […] venivano scavati profondi pozzi e riempiti con una moltitudine di morti. E morivano a centinaia sia di notte che di giorno […] E non appena quelle fosse si riempivano, altre se ne scavavano […] E io, Agnolo di Tura, chiamato il Ciccio, ho sepolto i miei cinque figli con le mie mani. E ce ne erano anche di quelli che erano così poco coperti di terra che i cani li trascinavano fuori e divoravano i corpi lungo le strade della città. Non c’era nessuno che piangesse per una qualche morte, poiché tutti aspettavano la morte. E ne morivano così tanti che tutti credevano che fosse la fine del mondo. Questa situazione continuò [da maggio ndt] fino a settembre».

Scene raccapriccianti simili a quella descritta da Di Tura, si ritrovano frequentemente in tutta Europa. In Sicilia, per esempio, Gabriele de’ Mussi, notaio, ci racconta l’iniziale diffusione della peste dalla Crimea:

«Ahimè! Le nostre navi entrano in porto, ma di mille marinai a malapena dieci sono stati risparmiati. Raggiungiamo le nostre case; i nostri parenti […] vengono da tutte le parti a farci visita. Maledetti noi che lanciamo su di loro i dardi della morte! […] Ritornando alle loro case, essi a loro volta contagiarono le loro intere famiglie, che nel giro di tre giorni morirono, e furono sepolti in un’unica fossa. Preti e medici venuti a far visita […] ammalati nello svolgimento del loro dovere, e subito […] morti. Oh morte! Crudele, amara, impietosa morte! […] Lamentando la nostra sofferenza, avevamo timore ad andarcene, e tuttavia non osavamo restare»

Frate John Clyn testimoniò gli effetti della peste a Leinster, dopo che questa si diffuse in Irlanda nell’agosto del 1348.

«Quella malattia privò villaggi, castelli e città dei propri abitanti in così gran misura che praticamente quasi nessuno sarebbe stato in grado di continuare a viverci. La peste era così contagiosa che coloro che toccavano il morto o persino il malato venivano immediatamente infettati e morivano, e colui che si confessava e il confessore raggiungevano insieme la fossa […] molti morivano ricoperti di pustole, ulcere e gonfiori che si vedevano sugli stinchi e sotto le ascelle; alcuni morivano, come impazziti, dal dolore alla testa, altri vomitando sangue […] Nel convento dei Minori di Drogheda ne morirono venticinque e altri ventitre dello stesso ordine a Dublino. […] Le città di Dublino e Drogheda erano talmente devastate e spogliate di abitanti che in Dublino solamente, dall’inizio di agosto fino a Natale, morirono quattordicimila persone. […] Non vi era una sola casa in cui moriva un solo membro, ma di solito marito, moglie, figli e parenti andavano tutti in un’unica direzione, e cioè incontro alla morte». 

Nell’arte e nel folclore Europeo                                      

La Danza della Morte, era una allegoria molto comune sull’universalità della morte nel tardo medioevo. Essa consiste nella Morte personificata alla guida di un insieme di figure danzanti, provenienti da tutti i sentieri della vita, che si dirigono verso la fossa.  In genere vi sono rappresentati un imperatore, un re, un papa, un monaco, un giovanotto, una bella ragazza, tutti allo stato scheletrico.

Tali rappresentazioni venivano prodotte sotto l’impatto della Morte Nera, ricordando alla gente quanto fragili fossero le loro vite, e quanto vane fossero le glorie della vita terrena.

Il primo esempio nell’arte ci proviene dagli affreschi nel cimitero della Chiesa dei Santi Innocenti a Parigi (1424). Vi sono inoltre opere di Konrad Witz a Basilea (1440), Bernt Notke a Lubecca (1463) e opere lignee di Hans Holbein il Giovane (1538).

La Morte Nera entrò velocemente nelle tradizioni popolari in molti paesi europei. Nell’Europa del nord, la peste era personificata come una vecchia vestita in nero, con cappuccio in testa, e con una scopa e un rastrello. Era credenza dei norvegesi che se essa usava il rastrello, parte della popolazione poteva sopravvivere, sfuggendo attraverso i denti del rastrello. Se invece la vecchia usava la scopa, ciò significava che l’intera popolazione di una certa zona era condannata. La vecchia megera della peste fu vividamente rappresentata nelle opere del pittore Theodor Kittelsen.

In letteratura

Oltre ai resoconti personali dei cronisti del tempo, molte narrazioni della Morte Nera sono entrate nella considerazione generale a far parte della grande letteratura. Per esempio, Il Decamerone di Boccaccio, e I Racconti di Canterbury (The Canterbury Tales) di Geoffrey Chaucer, sono generalmente considerate tra le migliori opere del loro tempo.  

 

NOTE:

  • Le traduzioni dei testi presentate sono a cura di Patrizia Fiocchi

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