PARLARE DI GIUSTIZIA CON LA GUERRA AI CONFINI.

Oltre ai corpi, la guerra uccide anche il pensiero, umiliandolo e imprigionandolo nel dolore, nella paura e nell’odio, sentimenti che purtroppo arrivano spesso a occuparne tutto lo spazio. È quel che vuole l’aggressore: disumanizzare le vittime per sottrarre importanza a quelle vite e poi spegnerle senza rimorsi e in modo che di loro non rimanga nulla.

Anche nelle situazioni più drammatiche diventa dunque fondamentale non lasciarci disumanizzare, perché, come ci ha insegnato Primo Levi, l’aggressore può anche prendersi tutto, ma non potrà mai sottrarci il pensiero. Pensare è una forma di resistenza.

La sera del sei marzo scorso, nel pieno dell’aggressione russa all’Ucraina, dopo la lunga sospensione delle attività in presenza dovuta alla pandemia, ci siamo ritrovati per ragionare con Paola Ziccone sul tema della giustizia riparativa

La giustizia richiede ovviamente un risarcimento per chi ha subito un danno e che il colpevole venga individuato e chiamato a rispondere delle sue azioni. È su quest’ultimo aspetto, l’essere chiamati a rispondere delle proprie azioni, che registriamo la possibilità di due logiche molto diverse: la logica di una giustizia vendicativa e la logica di una giustizia riparativa. 

La logica vendicativa non ha bisogno di venire spiegata, è quella che convenzionalmente ispira i sistemi giudiziari di tutte le comunità del pianeta e che abbiamo conosciuto da sempre. 

Ma che cosa significa introdurre la logica di una giustizia riparativa nella gestione dei conflitti?

C’è una piccola storia della tradizione ebraica che può forse aiutare a orientarci.

Nei tanti villaggi dell’Est Europa abitati da comunità ebraiche, prima delle deportazioni naziste, quando nasceva un diverbio, per chiedere giustizia ci si rivolgeva al rabbino, la personalità maggiormente stimata. 

Essendo sorto un conflitto fra due abitanti di un villaggio, essi si rivolsero all’anziano rabbino. Questi invitò l’accusatore a raccontare l’accaduto e commentò: «Hai ragione». Poi invitò l’accusato a esporre le proprie ragioni e commentò: «Hai ragione». L’aiuto rabbino, un ragazzino che si stava preparando al futuro ruolo, rimase ovviamente sorpreso ed esclamò: «Ma maestro, se hanno ragione entrambi come sarà possibile stabilire cos’è giusto?». E il rabbino rispose: «Hai ragione anche tu».

Che cosa voleva suggerire il rabbino ai suoi interlocutori? Desiderava evidentemente che i due contendenti capissero che si assomigliavano più di quanto non sospettassero. Ciascuno riteneva infatti che la ragione fosse completamente dalla sua parte e che il torto fosse tutto dell’altro. 

Le risposte apparentemente illogiche dell’anziano rabbino propongono una metodologia di ricerca della giustizia basata sull’ascolto. Ascoltando ciascuno il punto di vista dell’altro, si avrà infatti l’opportunità di scoprire quali problemi, disagi e sofferenze il comportamento lamentato ha procurato alla parte lesa, condizione indispensabile per riconoscersi come entrambi umani e per poter intraprendere un percorso di riconciliazione che comprenda anche, quando è possibile, un risarcimento del danno da parte di chi lo ha provocato.

Chi subisce un danno, un’umiliazione o una violenza, richiedendo giustizia, difende il legittimo diritto al rispetto e alla sicurezza e giustamente lo fa con passione, perché sa che un diritto, anche se previsto dalle leggi, non sempre viene garantito, soprattutto in relazione al peso sociale poco considerato dei più deboli. È una difesa importante e giusta, ma che rischia di evolvere in desiderio di vendetta, radicalizzandosi e cronicizzando la sofferenza vissuta.

Questo succede se e quando il diritto resta limitato alla sfera individuale. Se ci rappresentiamo come singoli, astraendoci dalla trama delle relazioni sociali di cui ciascuno di noi è parte, rischiamo di ritenere che i diritti siano una proprietà di coloro che di volta in volta li rivendicano. Resta così in ombra l’aspetto costruttivo del diritto, che è quello di mediatore delle relazioni sociali. Abbiamo la necessità di rivedere le nostre idee riguardo ai diritti, pretesi spesso come prerogative individuali, e di ricercare un’altra logica. Una logica che ci consenta di riconoscere:

    •  che i diritti dei singoli sono stati conquistati socialmente, e socialmente vengono difesi e curati

    •  che la vita sociale è caratterizzata da apporti e dipendenze reciproche,

    •  che la strada perché tutti possano veder riconosciuti e rispettati i propri diritti è la cooperazione.

È una logica illusoria? È una prospettiva per sognatori? Forse. Ma la ferocia e la disumanità che in questi giorni investe nuovamente l’Europa impone di porci una domanda: se il riferimento continuerà a essere quello limitato a una giustizia vendicativa c’è speranza di salvezza?

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