VOCI DALLA PALESTINA

Quelli che seguono sono i testi che verranno letti e interpretati durante l’aperitivo a tema Leggere la Nakba di domani, 14 maggio 2023.

Tre lettere dalla Palestina – Ghassan Kanafani

1. Lettera da Ramla

Ci disposero su due file ai lati della strada che collega Ramla a Gerusalemme. Ci ordinarono di alzare le mani e di incrociarle per aria. Quando uno dei soldati ebrei si accorse che mia madre cercava di tenermi davanti a sé per proteggermi con la sua ombra dal sole di luglio, mi tirò violentemente per un braccio ordinandomi di stare in piedi su una gamba sola e di incrociare le braccia sopra la testa, in mezzo alla strada polverosa.

Avevo nove anni allora e appena quattro ore prima avevo visto come gli ebrei erano entrati a Ramla. E mentre stavo lì, fermo in mezzo alla strada grigia, vedevo come gli ebrei esaminavano i gioielli delle donne, vecchie e giovani, e la brutalità con cui glieli strappavano di dosso. C’erano anche soldatesse dalla pelle bruna che ancora con maggiore zelo facevano la stessa cosa. Vedevo anche come mia madre guardava verso di me, piangendo in silenzio. In quei momenti avrei voluto poterle dire che stavo bene e che il sole non mi dava fastidio quanto lei invece immaginava.

Le ero rimasto solo io. Mio padre era morto un anno prima che tutto iniziasse e il mio fratello più grande lo avevano preso appena erano entrati a Ramla. Allora non sapevo esattamente che cosa rappresentassi per mia madre posso solo immaginare come sarebbero andate le cose se non fossi stato con lei quando arrivammo a Damasco e potevo vendere io al suo posto i giornali del mattino, urlando tremante alle fermate degli autobus.

Il sole cominciava a mettere alla prova la resistenza di donne e vecchi… qua e là si levava qualche misera protesta. Riconoscevo facce che ero abituato a vedere nelle anguste vie di Ramla e che adesso mi facevano pena. Ma non potrò mai spiegare la strana sensazione che s’impadronì di me quando vidi una soldatessa ebrea giocherellare sghignazzando con la barba di zio Abu Osman…

Zio Abu Osman non era proprio mio zio, era invece l’umile barbiere e medico di Ramla, che noi tutti, da subito, avevamo imparato a voler bene e a chiamare zio, in segno di rispetto e di stima, 

Se ne stava fermo, stringendo al suo fianco la figlia minore, Fatima, una bambina dalla pelle scura che con i grandi occhi neri fissava la donna ebrea bruna.

«E tua figlia?!».

 Abu Osman annuì preoccupato e i suoi occhi brillarono di uno strano, oscuro presagio. Con estrema disinvoltura l’ebrea sollevò la sua mitraglietta e la puntò alla testa di Fatima, la piccola dalla pelle bruna e gli occhi neri sempre colmi di stupore.  

In quell’istante si mise davanti a me una delle sentinelle ebree che perlustravano in giro e che era stata attirata da quella scena, Mi si parò davanti impedendomi di vedere, ma io li sentii i tre spari discontinui. Poi riuscii a scorgere la faccia di Abu Osman, trasfigurata dal dolore, e guardai Fatima che aveva la testa penzolante e gocce di sangue che colavano una dopo l’altra tra i capelli neri, fino alla terra scura e calda.

Poco dopo Abu Osman mi passò accanto tenendo tra le braccia il corpo di Fatima, la piccola bruna: muto e rigido guardava davanti a sé con calma terribile. Ripassò accanto a me senza guardarmi e osservai la sua schiena curva mentre camminava lentamente tra le due file, diretto verso la prima curva.

Poi guardai sua moglie accovacciata in terra che piangeva tra gemiti strazianti con la testa tra le mani. Un soldato ebreo si diresse verso di lei e le fece cenno di alzarsi… ma nella disperazione l’anziana donna non obbedì.

Questa volta vidi tutto ciò che accadde. Vidi con i miei occhi il soldato sferrarle un calcio, vidi la donna cadere all’indietro col viso grondante di sangue e vidi che le posava la bocca del fucile sul petto e sparava un unico colpo.

Subito dopo lo stesso soldato venne verso di me e mi ordinò con grande calma di sollevare la gamba che senza volere avevo appoggiato a terra. Quando sollevai la gamba ubbidendo mi diede due schiaffi, poi si ripulì sulla mia camicia il dorso della mano sporco del sangue che mi sgorgava dalla bocca. Stremato, guardai mia madre che li, tra le donne, le braccia sollevate, piangeva in silenzio e che tuttavia in quel momento emise una lieve risata tra le lacrime. Sentii la gamba piegarsi sotto il peso e un dolore atroce che mi spezzava la coscia, ma sorrisi anch’io e ancora una volta avrei voluto correre da mia madre e dirle che gli schiaffi non mi avevano fatto male, che stavo bene, che volevo che non piangesse e che si comportasse come aveva fatto Abu Osman poco prima.

I miei pensieri furono interrotti da Abu Osman che mi passò davanti per tornare al proprio posto dopo aver seppellito Fatima. Passò senza guadarmi e pensai che con l’uccisione della moglie ora avrebbe dovuto affrontare la nuova tragedia. Lo seguii con lo sguardo, con timore, finché giunse al suo posto e si fermò un istante, voltando la schiena curva e sudata. Immaginai la sua faccia: immobile, senza parole, costellata di gocce di sudore luccicante. Abu Osman si chinò per prendere sulle vecchie braccia quel corpo che avevo visto così spesso seduto a gambe incrociate davanti al negozio in attesa che il marito finisse il pranzo per poi ritornarsene a casa con le scodelle vuote. Poco dopo mi passò vicino per la terza volta col respiro affannato e ritmico, con piccole gocce di sudore sul viso rugoso. Passò accanto a me senza guardarmi e io ripresi a fissare la sua schiena curva e sudata, mentre procedeva adagio tra le due file, tutti smisero di piangere. Un silenzio doloroso scese su donne e vecchi.

Era come se i ricordi di Abu Osman rosicchiassero con insistenza le ossa della gente. Quei ricordi minuziosi raccontati tante volte da Abu Osman agli uomini di Ramla che si affidavano alle sue cure sulla poltrona da barbiere… quei ricordi si erano fatti un posto speciale nei cuori della gente di lì… erano quei ricordi a rosicchiare ostinatamente le ossa di tutti.

Per tutta la vita Abu Osman era stato un uomo benvoluto e mite, credeva nelle piccole cose e credeva soprattutto in sé stesso. Aveva ricostruito la sua vita dal nulla, dopo che la rivolta di Nablus lo aveva portato a Ramla. Aveva perso ogni cosa e aveva ricominciato di nuovo, con buona volontà, come una pianta verde nella buona terra di Ramla. Si era guadagnato la stima e l’approvazione della gente e quando in Palestina era scoppiata l’ultima guerra aveva venduto ogni cosa e aveva comprato armi per vicini e parenti che volessero dare il loro contributo alla battaglia. Aveva trasformato la sua bottega in un deposito di armi ed esplosivi e non aveva voluto alcun compenso per questo sacrificio: chiedeva solo di essere sepolto nel bel cimitero di Ramla, pieno di alberi alti. Era tutto ciò che desiderava. Tutti gli abitanti di Ramla sapevano che Abu Osman, dopo morto, desiderava essere sepolto nel cimitero di Ramla. Erano queste le piccole cose che avevano fatto ammutolire la gente, mentre le facce bagnate di sudore erano schiacciate dal peso dei suoi ricordi.

Guardai mia madre, lì, in piedi, con le braccia sollevate e la figura tesa come se si fosse appena fermata, mentre seguiva con gli occhi Abu Osman… muta come una statua di marmo, guardai più in là e vidi Abu Osman fermo davanti a una sentinella ebrea che parlava con lui e lui che gli indicava il suo negozio. Poco dopo vi si diresse, solo, e ritornò con un telo bianco col quale avvolse il corpo della moglie.

poi si rimise in cammino verso il cimitero. Lo vidi tornare da lontano, con il suo passo pesante, la schiena curva e le braccia abbandonate lungo i fianchi per la stanchezza. Mi si avvicinò con la stessa andatura lenta: più vecchio di quanto non fosse in realtà, sporco e impolverato, con il respiro corto, scandito e forte, il panciotto coperto da sangue misto a terra.

Quando fu davanti a me, mi guardò come se mi vedesse per la prima volta: mi vide lì, fermo in mezzo alla strada, sotto il sole cocente di luglio, impolverato, zuppo di sudore, con un labbro gonfio sul quale il sangue si era rappreso. Mi guardò a lungo respirando con affanno, gli occhi pieni di significati che non riuscivo a capire e che tuttavia percepii.

Alcuni istanti dopo riprese a camminare, lento, e ansimante, si fermò voltandosi verso la strada e levò le braccia al cielo.

La gente non poté seppellire Abu Osman come lui avrebbe desiderato. Quando era andato nell’ufficio del comandante per confessare quel che sapeva, si era sentita un’immensa esplosione che aveva raso al suolo l’edificio e i resti di Abu Osman si dispersero tra le macerie.

Mentre camminavamo verso la Giordania attraverso i monti, qualcuno disse a mia madre che prima di seppellire la moglie, quando era entrato nel suo negozio, Abu Osman non era uscito solo col telo bianco. (Damasco, 1956)

Fino alla mia fine e fino alla sua – Mohamud Darwish

– Stanco del cammino,
figlio mio, sei stanco?
– Si, padre
lunga è la tua notte sul sentiero,
e il cuore si discioglie sulla terra della tua notte
– Hai ancora l’agilità del gatto
allora salta sulle mie spalle,
tra poco attraverseremo
l’ultima foresta di terebinti e querce
ecco il nord della Galilea
e il Libano è dietro di noi,
tutto nostro è il cielo da Damasco
alle mura della bella ‘Akka.
– E poi?
– Torniamo a casa.
Conosci il sentiero, figlio mio?
– Sì, padre:
a est del carrubo sulla strada principale
v’è un viottolo all’inizio stretto dai fichi d’india,
poi in direzione del pozzo
si allarga a poco a poco, fino ad aprirsi
sulla vigna di ‘zio Jamil’
il venditore di tabacco e dolci;
poi si perde in un’aia
prima di rimettersi dritto e sedere in casa
a forma di pappagallo.
– E conosci la casa, figlio mio?
– La conosco, come conosco il sentiero:
un gelsomino cinge un cancello
impronte di luce sulla scala di pietra
un girasole scruta ciò che v’è dietro
api domestiche preparano la colazione del nonno
su un piatto di bambù,
nel cortile di casa un pozzo, un salice e un cavallo
e dietro al recinto un domani che sfoglia le nostre carte.
– Padre, sei stanco?
È sudore che vedo nei tuoi occhi?
– Figlio mio, sono stanco. Mi porti?
Come tu mi portavi porterò questa nostalgia
al mio inizio e al suo
percorrerò questa via
fino alla mia fine e fino alla sua

Ritorno ad Haifa – Ghassan Kanafani

«È molto che vi aspetto».
Il suo inglese era stentato, l’accento quasi
tedesco.
Sembrava che tirasse fuori le parole da un
pozzo molto profondo e
quasi in rovina.
Said si piegò in avanti e le chiese:
«Sa chi siamo?».
Lei annuì ripetutamente, come per sottolineare
l’affermazione. Rifletté
un po’, scegliendo le parole, poi disse con
calma:
«Voi due siete i proprietari di questa casa, lo
so».
«Come lo sa?».
La domanda era venuta contemporaneamente
da Said e da Safiya.
Il suo sorriso si allargò ancor di più; poi la
vecchia rispose:
«Da ogni cosa, dalle fotografie, dal modo in cui
vi siete fermati davanti
alla porta. Per la verità, da quando è finita la
guerra molti sono
venuti qui, e hanno cominciato a guardare le
case, a chiedere di entrare.
Ogni giorno mi dicevo che sareste sicuramente
venuti anche
voi».
Improvvisamente sembrò perplessa e cominciò
a guardare anche lei
gli oggetti sparsi per la stanza, come se li
vedesse per la prima volta.
Senza rendersene conto, Said si mise a seguire
lo sguardo di lei, ad
accompagnarlo nei suoi spostamenti. Safiya
faceva altrettanto, e
Said si disse: «Che strano! Tre paia d’occhi che
guardano la stessa
cosa. . . Ma come la vedono diversa!».
Sentì la voce della vecchia, ora rauca e più
lenta:
«Mi dispiace, ma le cose sono andate così. Non
avevo mai pensato
alla questione, a come stanno le cose adesso».
Said fece un sorriso amaro. Non sapeva come
spiegarle che non era
venuto per questo, che non voleva mettersi a
fare una discussione
politica, e che sapeva che non era colpa sua.
«Non è colpa sua?».
No, non proprio. Come spiegarglielo?
Fu Safiya a toglierlo dall’imbarazzo, chiedendo
con voce innocente
e ambigua, mentre lui comincia a tradurre:
«Da dove siete venuti?».
«Dalla Polonia».
«Quando?».
«Nel 1948».
«Quando esattamente?».
«Il primo aprile del 1948».
Calò un silenzio pesante, e tutti si misero a
guardare dove non c’era
niente di importante che attirasse lo sguardo.
Fu Said a rompere il
silenzio, dicendo con calma:
«Naturalmente noi non siamo venuti a dire
‘Vattene via di qua’. Ci
sarebbe bisogno di una guerra, per questo».
Safiya lo tirò per una mano, che lasciasse stare
quell’argomento, e
lui capì. Cercò parole diverse per affrontare la
questione:
«Voglio dire che la nostra presenza qui, in
questa casa, la nostra
casa, mia e di Safiya, è un altro discorso. Noi
siamo venuti soltanto
per vedere le cose, queste cose nostre… Forse lei
lo può capire» (pp.22-3)

Uomini Sotto il Sole – Ghassan Khanafani

Il povero piccolo mondo si apriva la strada attraverso il deserto come una goccia d’olio pesante su una lamiera di stagno infuocato. Il sole era alto sopra le loro teste, rotondo, fiammeggiante e spendente. Nessuno di loro si curava più di asciugarsi il sudore. Asad si mise la camicia sopra la testa, raggomitolò le gambe e lasciò che il sole lo arrostisse, senza opporre resistenza; Marwàn, invece, appoggiò la testa sulla spalla di Abu Qais e chiuse gli occhi… Abu Qais fissava la strada, stringendo con la forza le labbra sotto gli spessi baffi grigi.1969

I Martiri dell’Intifada – Fadwa Tuqan 

“Hanno tracciato la rotta verso la vita
l’hanno intarsiata di corallo, di agata e di
giovane forza
hanno innalzato i loro cuori
sui palmi di carbone, di brace e di pietra
E con questi hanno lapidato la bestia del
cammino
Questo è il tempo di essere forti, sii forte
La loro voce è rimbombata alle orecchie del
mondo
e il suo eco si è dispiegato fino ai confini del
mondo
Questo è il tempo di essere forti
E loro sono diventati forti…
E sono morti in piedi
Illuminando il cammino
scintillanti come le stelle
baciando le labbra della vita.”

Come verrà la Poesia – Anton Shamas

Apro la mappa del mondo
in cerca di un villaggio perduto
cerco nelle tasche di un avo mai conosciuto
frammenti di storie e rare fragranze
come farfalla lo cingo
tentenno e respiro la sua passione nei polmoni.
Se avesse avuto gli occhi azzurri
li avrebbe messi come amuleti attorno al mio
collo.
Tentenno, e sento templi affondati nei suoi
palmi.
Gli chiedo di tingere i miei occhi di partenza
e di riportarmi alle leggende, con un manto

Su questa terra – Mohamud Darwish

Hanno diritto su questa terra
Hanno diritto su questa terra alla vita:
il dubbio di aprile, 
il profumo del pane nell’alba,
le idee di una donna sugli uomini,
le opere di Eschilo,
il dischiudersi dell’amore, un’erba su una pietra,
madri in piedi sul filo del flauto, 
la paura di ricordare negli invasori.
Hanno diritto su questa terra alla vita:
La fine di settembre,
una signora quasi quarantenne 
in tutto il suo fulgore,
l’ora di sole in prigione,
nuvole che imitano uno stormo di creature,
le acclamazioni di un popolo
a coloro che sorridono alla morte,
la paura dei canti negli oppressori.
Su questa terra ha diritto alla vita,
Su questa terra, Signora alla terra,
La madre dei princìpi madre delle fini.
Si chiamava Palestina
Si chiama Palestina.
Mia signora ho diritto, ché sei mia signora,
ho diritto alla vita.

Video: Farah Chamma Nationality

Testo Tradotto: 

Nazionalità

Una nazionalità brasiliana, mi è stata concessa

Niente di meno di un passaporto e un’identità

Una residenza permanente e un accesso alla

sanità

“I documenti per favore

Le foto, ora sorrida per favore”

Così sono diventata latino-americana.

Non ho dovuto nemmeno aspettare troppo

all’ambasciata

Non mi è stata chiesta la mia affiliazione

politica

O se fossi, musulmana, Sunnita o Sciita. 

Sono stata accolta nella loro madre patria

Come donna palestinese

Che è stata esiliata dalla propria madrepatria

A cui è stato promesso un falso diritto al

ritorno

E a cui non fu mai permesso di tornare

Bene, i brasiliani conoscono la “Questione

Palestinese”.

Mi considerano una di loro

Mi hanno concesso una casa sulla spiaggia

Da cui posso contemplare la mia patria

dimenticata

Mi hanno concesso uno stipendio

E detto: “Sentiti a Casa”

Il loro alfabeto era alieno alla mia lingua araba

Il loro alfabeto era alieno alla mia lingua araba

Ma la mia lingua ha imparato il portoghese

A volte è frustrante

A volte è frustrante 

Perché io sono un’aliena in questo esilio infinito

Uno stormo che si è perso

Cerco piume simili alle mie

In un lontano esiliato cielo. 

In esilio, mi è stata data una stanza

In esilio, mi è stata data una stanza

Sono stata cresciuta e ho ricevuto

un’educazione

Il diritto di voto

Ho scritto poesie

Nei loro accoglienti caffè 

Senza la paura della persecuzione

O della censura

Quindi non biasimatemi

Se mai mi fossi vergognata 

Della mia discendenza araba

Tanti confini si sono chiusi davanti a me

Per il semplice fatto di essere una rifugiata

palestinese

Per aver un documento siriano provvisorio

Per tenere in mano il passaporto di un’Autorità

illusoria

Ho trovato una casa nell’esilio

Non nei paesi arabi

Dove mi sono stati negati timbri e documenti

Quindi sono qui, in esilio

Mentre gli arabi sono fieri del loro arabismo,

Dell’unità pan-araba

Della discendenza araba.

Ma i brasiliani, mi hanno dato una stanza

Rifugio, stabilità protezione e cittadinanza. 

Oh Arabi in esilio

Ritorneremo mai al nostro paese?

O rimarremo nel nostro paese? 

Oh Arabi in esilio

Ritorneremo mai al nostro paese?

O rimarremo nel nostro paese? 

Oh Arabi in Svezia, Danimarca, Norvegia e

Francia

Ritorneremo mai al nostro paese?

O rimarremo nel nostro paese? 

L’esilio mi addolora

E per questo parlo arabo

A dispetto di qualsiasi numero o nazionalità

Nel mio cuore rimane

Una sola nazionalità

Che vi piaccia o no

È quella araba. 

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