di Angelo Errani
L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha indicato il 3 dicembre come giornata internazionale delle persone con disabilità. C’è nelle giornate che l’ONU dedica agli aspetti maggiormente significativi per le nostre vite un richiamo alla riflessione, cioè all’esercizio di ciò che ci rende umani.
La disabilità ha accompagnato tutta la storia dell’umanità, una storia segnata da esclusioni feroci e dalla ricerca di percorsi inclusivi, comportamenti sociali spesso compresenti.
La logica dell’esclusione
È alla fine del ‘700 che, a cominciare dalla Francia, inizia l’accoglienza dei disabili in istituti ad essi dedicati. Fin da bambini i disabili vengono raccolti, vengono poi separati per genere e raggruppati per tipologie di deficit.
Gli istituti avranno una lunga storia di esclusione: bambini ed adulti strappati ai contesti di vita comuni a tutti. Una storia che nel nostro Paese arriverà fino agli anni ’80 del ‘900.
Giovanni Angioli, che dopo la Legge 180 diverrà capoinfermiere dell’Autogestito, il reparto voluto e diretto dal professor Giorgio Antonucci, ci offre questa testimonianza, del giorno in cui, assunto nel 1971 come infermiere, entrò all’Ospedale Psichiatrico Luigi Lolli di Imola.
[…] arrivammo in una sala con una ventina di letti; ad ognuno di questi c’era un ragazzino completamente nudo legato con una fascia ad una gamba o al polso e fissata alle reti. I materassi erano tutti ricoperti di skai, non c’erano comodini né cuscini e tanto meno lenzuola, il pavimento era coperto di piscio e feci. In sala c’era un unico infermiere che con l’ausilio di un unico lenzuolo per tutti, puliva le bocche a questi poveri ragazzi, i quali avevano appena ricevuto il pranzo. L’età di questi miseri esseri umani si doveva aggirare fra i quindici e i vent’anni. […]
(Angioli G., 2016, La chiave comune. Esperienze di lavoro presso l’Ospedale psichiatrico Luigi Lolli di Imola, Editrice La Mandragola, Imola (BO), p.15)
La gestione di una persona con disabilità costituiva un problema per le famiglie, perché implicava il mantenimento di una persona improduttiva e il dover dedicare persone produttive alla sua cura. L’istituto si prospettava quindi come la soluzione del problema. Ma era una soluzione o una moltiplicazione di problemi?
Le persone disabili entravano in un sistema che impediva una loro possibile evoluzione. Costringendole per tutta la vita ad essere imprigionati in categorie, ne veniva annullata l’identità personale e la totale dipendenza dalle diverse figure professionali dell’istituto ne aggravava inevitabilmente le rispettive problematicità.
Il costo pagato dai disabili era la violenza dell’esclusione dalla vita comune a tutti senza alcuna possibilità di evoluzione. Il costo sociale, in relazione anche all’impiego delle tante figure professionali dedicate, costituiva un enorme spreco economico assolutamente inutile, visto che l’unico risultato era quello di mantenere, rendendola permanente, la disabilità degli ospiti. Il costo culturale poi era altrettanto disastroso, visto che, eliminando l’eterogeneità degli stimoli che nutrono la formazione medica, educativa e sociale, veniva inibito qualsiasi percorso di ricerca di riduzione e superamento dei problemi. Nessuno – persone disabili, società e conoscenze – ne riceveva alcun vantaggio, ci si rimetteva tutti.
La logica dell’inclusione.
Le lotte sociali che dalla metà degli anni ’60 inondarono l’Europa e gli USA, unitamente ai grandi movimenti antimperialisti dell’Asia, dell’Africa e del Sud America, avranno il merito di unire alle rivendicazioni di carattere economico e riguardanti le condizioni di lavoro e di studio la proposta di una nuova logica che superasse lo scandalo delle esclusioni che avevano offeso ed umiliato i più deboli e le minoranze discriminate in relazione alla loro appartenenza ad identità disumanizzate e disprezzate. La componente della comunità scientifica maggiormente impegnata in un lavoro di ricerca, che non trascurasse la sua inevitabile ricaduta sociale, documentò la disumanità delle esclusioni, e delle condizioni che costringevano tante vite verso un destino senza alcuna possibilità di affrancamento. Le lotte, gli studi e la sperimentazione di pratiche, in particolare quelle riguardanti gli ospedali psichiatrici, dimostrarono che un’altra logica non solo era possibile, ma che conveniva a tutti. Ciò diede inizio, a partire dalla metà degli anni ‘70, al processo di integrazione dei disabili nelle scuole comuni e la trasformazione degli istituti in centri di servizi dei contesti di vita comuni a tutti.
In anni più vicini a noi, nel 2002, l’OMS ha proposto di superare la logica della valutazione della disabilità per categorie collegate ai diversi deficit e ha proposto una nuova logica: l’I.C.F. (Classificazione Internazionale del Funzionamento). L’interesse della logica proposta è dunque rivolto al funzionamento, cioè al cercare di capire come funziona una persona. E non tanto il funzionamento statico, ma il funzionamento in una proiezione dinamica. Non quindi quello che un soggetto sa fare oggi, ma ciò che potrà saper fare introducendo nella sua vita dei cambiamenti.
Abbiamo bisogno di conoscere per capire con quali strategie, con quali modi e con quali mezzi ogni persona disabile possa ridurre gli svantaggi che incontra ed avanzare nelle autonomie. Contrariamente ai luoghi comuni, abbiamo bisogno di comprendere che la via della conoscenza è sempre evolutiva, che si percorre cercando, interrogando, ascoltando e provando. E dobbiamo farlo assieme alle persone disabili perché siamo consapevoli che io non so tutto, che insieme possiamo sapere qualcosa di più e che, coinvolgendo altri, si aggiungeranno alla nostra le loro conoscenze.
Chi vive una disabilità ha bisogno di conoscere la propria disabilità per imparare a comprendere le caratteristiche del proprio funzionamento. Ed ha bisogno di conoscere gli handicap, cioè gli svantaggi, che incontra nei contesti ambientali, sociali e culturali, per imparare a ridurli nella prospettiva di un loro superamento, poiché i contesti delle nostre vite sono inevitabilmente tutti conformati secondo un modello umano che non prevede la pluralità.
È un dovere di conoscenza e impegno da cui non debbono venire escluse le persone disabili. È infatti un impegno che costituisce il diritto ad avere dei doveri, con la consapevolezza che, evitando l’impegno, ci resta solo l’assistenzialismo e, forse, un po’ di pietà.