LUSA – L’odissea del libro perduto: laguna blu

Io e Lusa ci dirigemmo verso il locale Laguna Blu. Me ne avevano parlato bene. Una sorta di disco-pub: musica, cocktails, un’ampia pista da ballo e, d’estate, un giardino fornito anche di piscina.

Non sapevo cosa aspettarmi dalla visita al locale. Innanzitutto mi chiedevo come avremmo fatto a riconoscere Annalisa. Io non l’avevo mai vista e per quanto provassi a chiedere a Lusa che faccia avesse, continuavo a non ricevere risposta. Infatti liquidava le mie domande con una semplice parola: «Privacy».
Era inutile insistere, per cui mi arresi, concentrandomi sulla guida. Non avendo un navigatore, ci volle più tempo del previsto per raggiungere la Laguna Blu. Era già buio ed era ormai passata l’ora di cena quando arrivammo all’esterno del locale.

Già dall’interno della macchina il suono della musica filtrava oltre i finestrini. E già mi immaginavo un bel mal di testa.
Lusa, però, non si fece minimamente intimorire. Sempre sorridente, uscì dalla macchina e si diresse verso l’ingresso. Dovetti inseguirlo per raggiungerlo e fermarlo.

«Aspetta! Mettiamoci d’accordo».
«Su cosa?» mi chiese, perplesso.
«Là dentro ci sarà moltissima gente e una gran confusione. Con la musica, poi, sarà difficile parlare».
«Come fai a saperlo?».
«Lo so e basta» risposi, non avendo la pazienza di spiegare a Lusa che in un locale di quel genere, visto anche il gran numero di auto parcheggiate, ci sarebbe stata una vera e propria folla di gente! «Mi raccomando, cerchiamo di restare vicini, così da non perderci».
«Va bene» rispose Lusa, tranquillo.

Mentre varcavamo la soglia avevo un brutto presentimento. Già immaginavo che quella avventura appena iniziata non sarebbe finita in fretta. Ma Lusa era così, non pensava certo alle conseguenze.

Il locale aveva luci soffuse, interrotte da brevi momenti in cui una luce blu elettrico, accesa e spenta a ritmo di musica, illuminava l’intera pista da ballo. Quest’ultima stava al centro, coperta da centinaia di coppie di piedi, pronte a pestarsi a vicenda. Intorno, numerosi tavoli rotondi, con sedie e divanetti, accoglievano fin troppi cocktail per essere solo l’inizio della serata. Nel lato destro, infine, il bar, assaltato da uomini e donne.

Lusa mi sorrise, quasi eccitato da quel mondo per lui sconosciuto. Aprì la bocca per dirmi qualcosa, ma la sua voce si perse nel frastuono.

«Cosa?» urlai. Inutilmente.

Stavamo avanzando verso la folla, quando una bodyguard ci fermò. Dopo averci squadrato con aria di sufficienza e mostrando una smorfia quasi disgustata di fronte ai nostri vestiti, ci disse, riuscendo a superare la musica: «L’ingresso costa 30 euro». E la sua mano aperta e in attesa sottolineò la sua frase.

Controvoglia, tirai fuori il portafoglio, sborsando sessanta euro. Già conoscevo, infatti, l’abitudine di Lusa di non portare soldi per le emergenze.
«Mi devi 30 euro!» gli gridai nell’orecchio.
Lusa sorrise, lasciandomi il dubbio se avesse capito oppure no.
«Andiamo a vedere se la troviamo!» mi disse, indicando la folla di gente.
Come trovare un ago in un pagliaio!, pensai, mentre seguivo Lusa in quel bagno di folla.

Facemmo il giro dei tavoli, guardando tutte le facce. Speravo con tutto il cuore che il mio amico riconoscesse subito Annalisa, ma la dea bendata aveva ben altri progetti per noi.
Dopo un giro completo, infatti, Lusa mi disse: «Ho sete!». E senza nemmeno aspettarmi, si diresse al bancone del bar. Cercai di raggiungerlo, ma un gruppetto di ragazze ormai ubriache mi trascinò sulla pista da ballo. Quello fu l’inizio della tragedia.
Intravidi Lusa ordinare qualcosa, mentre mi facevo largo tra la folla.
Il barista versò qualcosa nel bicchiere, e io tentavo di avvicinarmi.

6 - Lusa

Lusa, senza pensarci, trangugiò tutto il liquido. Lo raggiunsi mentre sveniva di colpo.

«Ehi! Ehi! Aiuto! Svegliati!» cercai di soccorrerlo. Ma nessuno ci aiutò. Chi ci notò, rise, credendolo ubriaco.

Come se non bastasse, il barista mi chiese di pagare il whisky (ecco cosa aveva ordinato!). Aprii il portafoglio, ma lo scoprii vuoto. Con l’ingresso avevo esaurito i soldi. Guardai il volto dell’uomo impaziente, cercando di mostrare la mia migliore faccia da scuse. Ma non servì.

Venne chiamata la sicurezza. L’energumeno di prima sollevò Lusa e poi mi afferrò per un braccio, in una morsa tremenda.
Protestai, sbraitai, mi divincolai.
Fu inutile. Più mi dimenavo, meno riuscivo a guadagnare la libertà. Ma nei miei movimenti scomposti urtai qualcuno, probabilmente ubriaco. Il mio colpo fu interpretato come un’offesa personale e l’alcool ingigantì la rabbia. In men che non si dica, il cliente che avevo urtato mi restituì il colpo, con un gancio destro che fece svenire anche me.

Eravamo entrati per cercare una persona ed avevamo finito per perdere noi stessi. Eravamo come Ulisse e i suoi uomini presso il popolo dei lotofagi: sprofondati nell’oblio, dimenticammo il nostro scopo.

E al risveglio, una nuova prova ci attendeva.

Francesco Tarud

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