SMASCHERARE UNA MENZOGNA: SI IMPARA INSIEME NON DA SOLI

Angelo Errani conclude il percorso alla scoperta dei momenti e delle fasi cruciali di una corretta relazione educativa, ponendo l’accento sull’importanza dell’imparare insieme collaborando e sulla la cortesia come componente dell’intelligenza.

di Angelo Errani

Il rito che ogni mattina accoglie i bambini, introducendo la vita quotidiana di tante classi della scuola del nostro e di altri paesi nel mondo, il salutarsi per poi dedicarsi al progettare insieme le ragioni e le modalità del lavoro su cui impegnarsi, costituisce un riferimento confortante nel panorama di profonda crisi e di disorientamento sociale e culturale che comprende ovviamente anche l’impegno educativo verso le nuove generazioni. Una parte della scuola si propone come esperienza di resistenza rispetto alla deriva dei riferimenti di bene comune e di responsabilità, una parola quest’ultima che, dal termine latino respondere da cui deriva, riceve il significato di dare risposta ai bisogni e ai problemi che si incontrano. E la solitudine che tanti insegnanti sperimentano è collegata al loro impegno in controtendenza rispetto al comandamento del pensiero dominante: un edonismo che non conosce limiti, da perseguire rincorrendo il successo nei confronti degli altri e accaparrandosi i consumi in competizione con il prossimo.È la cultura del liberismo. Una cultura che produce polarizzazione ed esclusione, sia con fenomeni di gerarchizzazione fra le diverse popolazioni del mondo che di emarginazione all’interno delle società più ricche. Si è così radicalizzata una divisione profonda fra chi può disporre di risorse personali e chi non può farlo, fra chi riesce a tenere il ritmo imposto dalla competizione e chi non ce la fa, fra chi ha competenze spendibili sul mercato e chi, ritenuto inutile, viene respinto nell’esclusione.

La scuola diventa dunque risorsa sempre più decisiva di prevenzione dal conformismo, dal disagio e dall’esclusione quando propone il dubbio, la ricerca e l’esercizio di parola come via per l’umanizzazione di tutti e non di una sola parte.

Un altro aspetto che caratterizza la contemporaneità è costituito dalle modalità e dalla quantità delle informazioni. Siamo immersi in un diluvio di parole, immagini e segni il più delle volte non connessi gli uni agli altri. La quantità sempre più rilevante di informazioni, proposte a velocità crescente, rende poi assai difficile riuscire a contestualizzare, ordinare nel tempo, collegare le parole e le immagini in una narrazione. I frammenti rischiano di diventare egemoni e se ne può rimanere schiacciati e confusi con la conseguenza di vivere nella non scelta e nel casuale. Deprivati dei riferimenti custoditi nella memoria delle generazioni non si hanno a disposizione i punti di riferimento indispensabili per progettare prospettive realistiche di vita.

Anche riguardo a questi rischi la scuola può costituire un’opportunità fondamentale per far scoprire la relazione fra reale e virtuale e per allenare all’esercizio critico delle seduzioni della comunicazione. C’è una opportunità nella scuola: è la possibilità di far scoprire ai bambini che ci può essere un piacere più intenso di quello millantato dal consumismo, dalla dipendenza dagli oggetti e dal realizzarsi sopra gli altri, un piacere che Gianni Rodari descrive in modo esemplare:

Lettera ai bambini

È difficile fare
le cose difficili:
parlare al sordo
mostrare la rosa al cieco.
Bambini imparate
a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi.(1)

La ricerca e gli studi per “imparare a fare le cose difficili”, cioè a cercare soluzioni per i problemi reali che viviamo nelle comunità di cui siamo parte, offrono un piacere che non è certo paragonabile a quello dell’impegno deprimente di dedicarsi a imparare nozioni fini a se stesse e a rispondere ai test standardizzati tanto di moda. Accogliere un interrogativo, suggerito dall’esperienza, stimola la curiosità e la ricerca di risposte. La ricerca di risposte poi, nel suo sviluppo, richiama il bisogno di strumenti, cioè i linguaggi, i numeri, le tecnologie e incrocia necessariamente gli archivi della memoria, cioè i libri, le etimologie, le fonti, consentendo di scoprirne l’utilità.

L’attività di ricerca crea inoltre un contesto laboratoriale di condivisione delle responsabilità, consente di sperimentarsi utili reciprocamente, rendendo riconoscibili le capacità di ciascuno, facendoci sperimentare che abbiamo bisogno gli uni degli altri e che il merito è collegato alla parte di contributo offerto da ciascuno.

In occasione del conferimento del premio Barbiana per l’educazione, conferitogli il 29 maggio del 2010 dal Comune di Vicchio nel Mugello, Andrea Canevaro propose una riflessione centrata sulla parola «merito». Lo studioso sottolineava la corruzione che era avvenuta riguardo al significato del termine, con l’enfasi posta, soprattutto negli ultimi anni, riguardo al tema della meritocrazia.

«Secondo tale logica bisognerebbe procedere all’individuazione, il più possibile precoce, dei soggetti meritevoli, perché questi possano ricevere tutte le attenzioni, mentre gli altri, gli immeritevoli, dovrebbero essere messi nelle condizioni di non far perdere tempo e di non far sprecare energie e denaro. Coerentemente con tale concezione, sarebbe dunque non solo inutile ma dannoso ed uno spreco di risorse organizzare il tempo pieno scolastico, curare i contesti dell’apprendimento in direzione inclusiva e dedicare impegno alla ricerca didattica»(2).

La logica descritta orienta ovviamente anche i comportamenti, promuovendo stili di vita dove ciò che conta è il successo individuale e la visibilità. C’è un’enfasi su ciò che Silvano Petrosino chiama «miti voraci»(3), cioè i miti veicolati dai ricorrenti riferimenti all’eccellenza e alla competizione, come, per esempio, le olimpiadi delle diverse discipline e il premio allo studente dell’anno.

Ne deriva l’idea che ci si debba impegnare e studiare contro gli altri, difendendosi dalla possibilità che altri si affermino al nostro posto, in spregio al diritto all’istruzione di tutti, da realizzarsi, come indica la Costituzione, attraverso la ricerca delle compensazioni necessarie alla riduzione delle differenze delle opportunità educative. L’enfasi sulla meritocrazia ha investito anche i criteri di valutazione, indirizzandoli a premiare conoscenze e abilità secondo parametri oggettivo-quantitativi che, come avviene per i test standardizzati, non fanno che confermare le disuguaglianze di partenza.

Le conseguenze vanno ovviamente molto al di là della dimensione individuale, perché comportano un danno serio alle relazioni fra i bambini e nuovi rischi di emarginazione ed esclusione sociale.

«L’esclusione ha inoltre un costo economico molto più ampio dell’inclusione: una scuola che esclude, invocando rigore e severità, non promuove conoscenze ma ignoranza. E costa di più»(4).

Massimo Recalcati(5), riferendosi ai dati messi a disposizione dalla Fondazione Agnelli, sottolinea ciò che molti insegnanti sanno molto bene e cioè che le classi che funzionano meglio sono quelle più eterogenee. Sono ormai più di ottanta le lingue che i bambini parlano nelle scuole italiane. La scuola ha dunque una caratterizzazione profondamente multiculturale e non può conseguentemente vivere e agire se non nella contaminazione delle diverse presenze e nell’intreccio dei relativi apporti. L’apporto più importante – e lo è per tutti – è che, avendo gli altri come riferimento, possiamo imparare dalle differenze che essi ci offrono, confrontandole, accogliendo in parte quei contributi che troveremo utili e offrendo a nostra volta la possibilità che gli altri scelgano parte dei nostri. Anche i riferimenti etimologici confortano questa visione delle cose. La parola “merito” deriva infatti dal verbo latino mereri, che significa avere una parte e che, a sua volta, fa riferimento alla parola greca merismòs, che traduciamo con la parola italiana parte, e a merikeyomai, che significa dividere in parti.

Gli studi sulle dinamiche dei gruppi, pur facendo riferimento a diverse scuole di pensiero, concordano sul fatto che la complessità, costituita dalle diversità che caratterizzano inevitabilmente la vita dei gruppi, influisce in modo determinante sugli apprendimenti dei singoli e sulla formazione delle abilità sociali.

In occasione del Natale del 1965 Lorenzo Milani descriveva a un amico l’esperienza con i ragazzi della sua scuola con le seguenti parole:

«I ragazzi qui studiano e pensano, ma anche io penso e studio con loro e normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie: perché questo bene è fatto di rispetto reciproco. Il parlarsi fonde insieme le nostre ricchezze»(6).

La citazione offre una testimonianza esemplare di un aspetto spesso nascosto: in un ambiente in cui le conoscenze non sono già pronte, e quindi solo da imparare a ripetere, ma vanno ricercate attraverso il contributo di tutti, non imparano solo gli allievi, ma, insieme a loro, impara anche il maestro. E le conoscenze, grazie agli aspetti problematici che sempre richiamano, vengono alimentate nella relazione, poiché è l’incontro con le difficoltà che richiama l’impegno e questo di conseguenza favorisce l’attività cognitiva e la scoperta della risorsa costituita dal contributo degli altri.

Il rispetto reciproco, di cui don Milani parla nella lettera, potrebbe apparire come un aspetto volontaristico e senza connessioni con i processi d’apprendimento. Il pensiero comune relega infatti gli apprendimenti in una rappresentazione di intelligenza astratta senza alcun collegamento con i temi reali vissuti nella quotidianità. È questa una rappresentazione dell’intelligenza che non avrebbe caratteristiche sociali e che sarebbe limitata alla singolarità dei soggetti. Giovanna Axia ci aiuta a riconsiderare tali preconcetti, dimostrando che la cortesia è una componente dell’intelligenza e che l’intelligenza non è una caratteristica soggettiva definita una volta per tutte, ma è una potenzialità presente in ciascuno, una potenzialità educabile e incrementabile.

«La cortesia è sociale, non morale. […] La cortesia è un fenomeno semplice inventato dall’umana saggezza per alleggerire la strada che si percorre in compagnia. […] La cortesia è un atteggiamento mentale»(7).

Più le persone, in particolare chi sta crescendo, vivono in un ambiente uniforme, più è probabile che non abbiano la possibilità di imparare l’arte di negoziare i significati e i comportamenti. La scuola, la scuola di tutti, costituisce la principale occasione per arricchire l’appartenenza culturale di ciascuno nella contaminazione con quella degli altri. Essa infatti offre a soggetti diversi l’opportunità di lavorare insieme consentendo loro di scoprire che il contributo di ciascuno partecipa alla costruzione di un risultato che diventa un vantaggio per tutti. La scuola costituisce un’esperienza che consente di sperimentare la responsabilità e l’appartenenza attiva alla comunità di cui si è parte, imparando anche, forse, quel che Charlie Chaplin suggeriva, cioè che:

«Un giorno senza un sorriso è un giorno perso»(8).

NOTE:

  1. G. Rodari (1975), Le cose difficili, in Il giornale dei genitori; (1979) con titolo Lettera ai bambini, in Parole per giocare, Firenze, Manzuoli, p. 31.
  2. A. Canevaro, Intervento in occasione del conferimento del premio Barbiana per l’educazione, Vicchio del Mugello, 29/05/2010.
  3. S. Petrosino, No al “primo della classe”: scuola e vita non sono gare, in Avvenire, 05/06/2012.
  4. A. Canevaro (2013), Scuola inclusiva e mondo più giusto, Trento, Erickson.
  5. M. Recalcati, Elogio della classe media: così la scuola dell’obbligo fa scoprire il mondo, in La Repubblica, 02/06/2012.
  6. Pecorini (a cura di) (2001), Lorenzo Milani. I Care ancora. Lettere, appunti e carte varie inedite e/o restaurate, Bologna, EMI.
  7. Axia (1996), Elogio della cortesia, Bologna, Il Mulino, pp.11-12.
  8. Lupo Bari (2004), Inseguire una stella, Milano, Greco e Greco Editori, p.78.

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