LONDRA, CASA: L’INIZIO DEL VIAGGIO

La mia esperienza a Londra copre quasi metà della mia vita, infatti sono venuta qui per la prima volta quando avevo 16 anni e ora ne ho la bellezza di 30. Avevo fatto pochi viaggi in Europa fino ad allora perché non avevo ancora ottenuto il passaporto italiano. I miei genitori sono d’origine Eritrea quindi secondo la tanto discussa legge sulla cittadinanza, avrei potuto ottenere il passaporto italiano al compimento dei diciott’anni. Ringrazierò sempre mamma Italia per avermelo negato per sedici anni, pur essendo nata nel bel paese; ma i miei più sinceri ringraziamenti vanno a mio padre che, per tutelare me e mio fratello, ha scelto di iniziare il tortuoso percorso per l’ottenimento della cittadinanza italiana grazie al quale, io a sedici anni e mio fratello a dieci, siamo diventati formalmente italiani.

All’epoca la città di Londra era ovviamente diversa, multiculturale sì, ma con molti meno europei e sicuramente molti meno italiani. Mentre io ero abituata essenzialmente a stare solo con italiani o con bipolidi come me. Mia mamma e mio fratello avevano viaggiato con me ed eravamo stati da una zia che aveva deciso di trasferirsi là dall’Italia, qualche anno prima. Onestamente, non ricordo molto di quella vacanza se non il ritorno burrascoso: infatti perdemmo l’aereo, ma stranamente ci fecero prendere quello successivo senza tante storie e poi una scena nella sala d’attesa, che è stampata nella mia memoria come un francobollo.
Due ragazzi si baciavano in mezzo alla hall, un bacio lungo e appassionato, un bacio da film. Fino ad allora non avevo mai visto due ragazzi baciarsi se non in TV e penso che solo lì io abbia visto una naturalezza nelle dimostrazioni di affetto tra due persone dello stesso sesso. Pensai che a Londra tutto può succedere, pensai che Londra è la città delle possibilità!

Dopo quella volta, andai più volte ma quella più lunga fu durante l’estate del mio diciottesimo compleanno. Partii appena dopo la fine della scuola e tornai verso la fine di agosto: due intensi mesi londinesi. Stetti con mia zia e la convivenza non fu facile; il motivo era, credo, che lei non fosse così più grande di me da trattarmi da figlia e non così tanto giovane da considerarmi una sua coetanea. Fu così che dopo meno di una settimana si stufò di scarrozzarmi in giro per la città, mi diede un libro con le mappe della città e mi disse «Gira». Prima di questo però mi trovò un lavoro da barista nel bar di un suo amico, nella zona di Whitechapel e vicino ad una delle più grandi ed antiche moschee di Londra.

Solo qualche mese fa ho fatto una visita guidata di questa moschea, che si chiama East London Mosque. È gratuita e la consiglio a chiunque passi per Londra per l’ennesima volta e voglia sperimentare qualcosa di diverso, specialmente per l’architettura interna ed esterna dell’edificio, la sua storia e i deliziosi dolcetti che vengono preparati dai membri della comunità.

La mia estate londinese fu quella del 2005, la stessa degli attentati che colpirono la stazione di King’s Cross e vari autobus intorno alla City. Quel giorno non sarei andata a lavorare e avevo pianificato di andare a fare la turista e vivendo a due fermate da King’s Cross, ci sarei passata sicuramente. Fortuna volle che spensi la sveglia e dormii più a lungo di quello che avevo pianificato. Mi svegliai con mia zia che guardava esterrefatta la TV, non capivo. Mi ci volle qualche minuto, non sono una persona volontariamente mattiniera. La famiglia di mia madre non è famosa per essere quieta e serena e mia zia era sull’orlo di una crisi di panico, pur essendo noi protetti dalle quattro mura domestiche. Il panico, si sa, è contagioso e avevo bisogno di ossigeno fresco, per cui volevo uscire e nonostante le opposizioni di mia zia, mi lasciai la porta alle spalle, decisa a farmi un giro. Appena arrivata sulla strada principale un fiume di gente mi si palesò davanti, colletti bianchi e studenti, joggers e mamme con i bimbi in braccio. Una lunga e corposa fila silenziosa, perché nessuno fiatava. Tutti avevano gli occhi fissi davanti a loro e King’s Cross alle spalle. Un mio compagno di classe mi chiama dalla Grecia per sapere come sto, ha saputo degli attentati. Decido di tornare a casa.

Il resto delle mie vacanze passarono veloci, ma con una cappa di tensione e paura che ricopriva la città, l’aveva trasformata per sempre. I controlli ai musei non duravano più qualche secondo, ma anche una ventina di minuti e certe nazionalità diventarono oggetto di spiacevoli battute e sguardi diffidenti. Una di queste fu quella Eritrea, perché uno degli attentatori aveva origine eritrea. Ricordo che un giorno il portiere dello stabile dove viveva mia zia disse qualcosa di sconveniente, mia zia che in quel momento stava per prendere l’ascensore, si girò fulminea e gli fece una sfuriata epica. Ricordo che il portiere non ci rivolse più la parola da allora, se non per l’usuale buongiorno e buonasera.

Al bar, non percepivo molto di quel generale malessere che aveva contaminato la città. Gli episodi inusuali si susseguivano come al solito. Uno di quelli che probabilmente ricordo maggiormente è l’entrata di questa coppia. Entrambi vestiti con tradizionali abiti di stampo islamico. Lei con un burka integrale completo di guanti, cosa piuttosto comune in quella zona e alla quale quasi cominciavo a non far caso. La cosa che differenziò questa visita fu il comportamento del signore, che entrando non mi rivolse nemmeno uno sguardo, fece e ritirò il suo ordine solo dal mio capo maschio, anche se era palese che il mio capo era occupato al computer in quel momento. Non mi offesi, la trovai un’altra delle bizzarrie londinesi.

Alla fine di quella insolita estate non ne uscii più ricca dal lavoro al bar, ma decisamente piena di storie da raccontare e con l’idea che c’è un posto nel mondo dove puoi essere chi vuoi e realizzare le tue aspirazioni, senza preoccuparti del giudizio degli altri e, anzi, probabilmente sono gli altri che ti aiuteranno a far avverare i tuoi sogni. Questo posto ora lo posso chiamare casa.

Mebrat Beiene

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