IRAN, TANTA VOGLIA DI TORNARE IN UN PAESE SENZA CONFINI. APPUNTI DI VIAGGIO – TERZA PARTE

di Roberta Merighi

Davanti a noi, dietro una lastra di cristallo, arde un fuoco. È tenuto acceso in quel braciere da più di 1500 anni. Quel fuoco ci fa pensare, ci costringe ad allargare i confini della storia che ci portiamo dentro. Fa ricordare cose che avevamo studiato o letto ma che poi avevamo accantonato in un angolo della memoria: quel fuoco è il simbolo, la manifestazione, del dio Ahura Mazda, il dio del profeta Zaratustra. Lo zoroastrismo, la religione da lui fondata più o meno alla fine del secondo millennio a.C. e diffusasi in tutto l’altopiano iranico, è ritenuta la più antica religione che riconosca un dio unico e onnipotente, appunto Ahura Mazda.

Questa fu la religione di Ciro il Grande, di Serse e di Dario cioè dei conquistatori e regnanti dell’impero achemenide, esteso dall’Asia all’Africa e all’Europa dal VII al IV sec. a.C. Ed anche se non imposta alle popolazioni dominate, perché Ciro con accortezza e lungimiranza aveva lasciato libertà di culto, non fu scalfita dai conquistatori greci e fu professata, poi, sotto l’impero sasanide fino alla conquista araba del 642 d.C. e alla conseguente diffusione dell’Islam.

Essa parla della lotta perenne tra Bene e Male tra Luce e Tenebre. Gli uomini durante la loro vita si trovano a dover scegliere se stare dalla parte del bene o del male. Secondo quanto ci tramanda Erodoto “dire la verità” è la virtù più importante per il credente zoroastriano, perché sconfigge la menzogna e quindi il male. Buoni pensieri, buone parole, buone opere sono il viatico per il Paradiso dopo la morte. Cattivi pensieri, cattive parole, cattive azioni sono invece il viatico per l’Inferno (già sentito?).

E ancora, i tre Magi che arrivano a Betlemme da oriente sui loro cammelli seguendo la cometa per portare doni a Gesù e che, sotto forma di statuine, il 6 gennaio vengono aggiunti agli altri personaggi nel presepe cristiano, sono sacerdoti zoroastriani.

Ecco perché quel semplice fuoco ti porta lontano con la mente.

Anche se il tempio in cui ci troviamo e in cui arde, in realtà, è “moderno”. Quel fuoco davanti al quale ci troviamo infatti, acceso nel 470 d.C. dallo Shah sasanide Piruz e passato attraverso diversi templi e diverse città e arrivato a Yazd nel 1474, arde oggi in un Tempio del Fuoco che è stato eretto nel 1934. Sul suo frontone campeggia la figura alata di Fravashi, lo spirito guardiano che simboleggia la parte di spirito che dopo la morte si ricongiunge alla divinità (anche questo già sentito?).

A questo tempio continua ad arrivare in pellegrinaggio il popolo residuo dei credenti perché la città di Yazd è oggi il maggior centro zoroastriano dell’Iran. E, mescolati ai fedeli, noi turisti.

Masoud, giovane guida, ingegnere prestato (o convertito?) al turismo, gentile e premuroso ci

accompagna nei luoghi di culto di questa religione e a conoscere la città.

Yazd sorge alla congiunzione di due deserti, il Dasht-e Kavir e il Dasht-e Lut, ma soprattutto sembra sorgere essa stessa, magicamente, dal deserto; le sue case fatte di adobe (in arabo vuol dire cotto, si tratta di mattoni fatti d’impasto di argilla, paglia e sabbia) sono dello stesso colore del deserto.

La città vecchia è un intrico di stradine strette, passaggi coperti, in cui è facile perdersi, fatti per trovare riparo dalla calura estiva (è fra le città più calde del paese) e dal freddo dell’inverno, ma anche dalle tempeste di sabbia che imperversano in alcuni periodi dell’anno.

È città fra le più antiche al mondo, scampata alle immancabili distruzioni seguite alle conquiste da parte di altri popoli durante la lunga storia dell’impero persiano. Fu elogiata da Marco Polo, si trova infatti sulla “via della seta”, per la bellezza dei suoi tessuti preziosi, delle sete in particolare, che ancora oggi vengono prodotti e fanno bella mostra di sé nel bazar e nei negozi intorno ad esso.

Ma non è città che vive di sole tradizioni, oggi è anche centro di eccellenza nella cura della fertilità. Qui arrivano da tutto il paese e anche dall’estero coppie desiderose di mettere al mondo un “fiore del deserto” come sono chiamati qui i bimbi che nascono frutto della ricerca e delle cure.

Yazd è famosa anche per il suo skyline in cui si incastrano le cupole delle antiche cisterne dove veniva raccolta l’acqua che i qanat (canali sotterranei) portavano giù dalle montagne circostanti. Ma da cui, soprattutto, emergono, si ergono, i badgir (le torri del vento) che giocano con il sole al tramonto. Un po’ come nelle nostre turrite città medievali.

Il Bagh-e Dolat Abad è un’abitazione circondata da un bel giardino persiano percorso da canali d’acqua e arricchito da piscine e fontane che innaffiano aiuole di fiori protette da alti alberi e un bel frutteto; costruita nel 1750 è dotata del più alto badgir del paese (in verità crollato e ricostruito negli anni Sessanta). Qui Masoud ci spiega il funzionamento di questa “aria condizionata ante litteram”.

Le torri del vento sono in grado di catturare l’aria attraverso una sorta di feritoie/ali (e si differenziano a secondo della capacità di catturare l’aria da più direzioni, da una le più semplici/povere, fino a quattro le più complesse/ricche) e convogliarla all’interno della casa. Una volta dentro l’aria passa su una vasca d’acqua fredda (portata dai qanat sopra ricordati) e da qui, purificata delle scorie del deserto e raffreddata, si diffonde e rinfresca la casa. E alla fine l’aria ritornata calda risale all’esterno lungo uno dei canali del badgir stesso.

La sontuosa abitazione vanta, inoltre, eleganti decorazioni e vetrate colorate in grado di respingere il calore intenso delle estati e di proteggere gli interni dalla luce abbagliante del sole.

A una decina di chilometri dalla città, già nel deserto, sorgono, su due collinette, due Torri del Silenzio. Fatte della sabbia del deserto quasi si confondono in esso. Alla loro sommità costituita da una piattaforma protetta tutt’intorno da un alto muro, e ora raggiungibile con una scalinata, i zoroastriani esponevano i loro morti perché questi, secondo la loro religione, non potevano essere né sepolti, né bruciati per non inquinare né la terra né l’aria e ancor più per non contaminare il fuoco, elemento sacro. Solo l’esposizione alle forze della natura, pioggia e vento, e ai rapaci come gli avvoltoi dissolveva i cadaveri preservando da qualsiasi contaminazione gli elementi sacri terra, aria e fuoco. Il muro che racchiude la piattaforma impediva anche l’accesso agli animali “terrestri”.

Ai piedi delle torri sono ancora visibili gli edifici dove viveva il guardiano del luogo e quelli dove sostavano i cadaveri prima dell’esposizione.

Questa modalità funeraria è stata seguita fino agli anni Sessanta quando è stata proibita per motivi igienici. Ora i morti zoroastriani vengono sepolti nel vicino cimitero in tombe rivestite di cemento in modo da non profanare la terra.

Dopo questa escursione alle Torri del Silenzio nel deserto, Masoud ci offre in un bar il faludeh, una coppa rinfrescante di vermicelli di mais immersi in uno sciroppo molto freddo di zucchero e acqua di rose. Poi ci riconduce in albergo – una vecchia e bella abitazione tradizionale con patii, vasche d’acqua, dai cui tetti terrazzati si ammira il panorama della città vecchia – perché dice «è troppo caldo per proseguire le nostre escursioni, le riprenderemo più tardi». E noi non sappiamo se lo fa perché ci vede un po’ anziani e pensa che possiamo stramazzare al suolo, o se lo fa con tutti. Ma per noi i 38° così secchi del deserto di Yazd sono una carezza in confronto alle estati torride e malsane di Bologna.

Nel pomeriggio, per raggiungere la Masjed-e Jameh, la Moschea del Venerdì, attraversiamo un tratto del quartiere ebraico della città. «Alcuni ebrei se ne stanno andando da quando la tensione con Israele è salita» ci dice, pensierosamente, Masoud e ci mostra alcune scritte intimidatorie nei confronti di Israele sulle case del quartiere. Fino ad ora gli ebrei iraniani, che per millenni hanno vissuto nel paese (ricordiamo che fu Ciro il Grande a liberarli dalla schiavitù dei Babilonesi), non avevano avuto motivo di andarsene, ci spiega, ancora, la nostra guida, a differenza di quelli che, vivendo nei paesi arabi, li avevano lasciati dopo la fondazione dello stato di Israele e le guerre fra arabi ed israeliani. Da sempre essi costituiscono una minoranza religiosa riconosciuta, come riconosciute sono le loro scuole e i loro ospedali, e al pari degli zoroastriani hanno diritto a un seggio in parlamento.

La Moschea del Venerdì, del XV sec., si erge nella città vecchia in tutta la sua imponenza vantando il portale di ingresso e i due minareti più alti del paese. Sia il portale che l’interno sono arricchiti di maioliche azzurre di grande pregio; raffigurato nella parete centrale in maiolica si trova disegnato il gardoneh mehr il simbolo ricorrente nell’antichità indo-europea (lo si trova in altri edifici persiani fin dall’antichità) che rappresenta l’infinito, l’eternità, la nascita e la morte. Ma nel ‘900 divenuto tristemente famoso in Europa e in tutto il mondo come svastica nazista.

Poi Masoud ci fa entrare in una grande antica cisterna per l’acqua, in disuso, risalente al XVI sec. che in passato riforniva una buona parte della città. Oggi è adibita a una specie di palestra e qui ci accolgono il suono ritmato di un tamburo e il recitato cadenzato di una persona. Siamo nel Saheb A Zaman Club Zurckaneh (o casa della Forza) dove il morshed, l’allenatore, al suono del tombak (tamburo) guida, con frasi rituali (o di carattere religioso o tratte da poemi epici), gli esercizi effettuati dagli atleti in un ring posizionato in una cavità al centro. Anch’essi rispondono alla loro guida con frasi rituali prima di ogni esercizio.

Questa forma di ginnastica ha origini antiche. Sotto i Parti (250 a.C. 224 d.C.) veniva praticata per formare i guerrieri e infondere loro l’orgoglio patriottico e dell’appartenenza al gruppo. Per la religione zoroastriana sviluppava la forza fisica che rinforza la mente e soprattutto la spiritualità. Durante la dominazione araba questa attività venne proibita, ma fu praticata dai persiani in forma clandestina per mantenere viva una parte della loro cultura e soprattutto la prestanza fisica che gli arabi volevano impedire. Infine ha trovato una sorta di sincretismo con la tradizione sufica. E infatti la danza sufica è uno degli esercizi eseguiti dagli atleti insieme a vere e proprie prove di forza con pesanti attrezzi.

Il nostro driver del giorno dopo è Saduq. Con lui partiamo per Shiraz via Pasargade. Anch’egli ha un vero e proprio “autogrill” nel baule della macchina e ci fermiamo a metà strada, in una piccola oasi, per un buon tè con biscottini e gli immancabili datteri.

Poi arriviamo davanti all’entrata del sito archeologico di Pasargade l’antica capitale di Ciro il Grande, la cui costruzione fu iniziata nel 546 a.C.

«Non è rimasto molto da vedere, ve la cavate in mezz’ora» dice Saduq. Ma non conosce Giuseppe: ad ogni pietra antica è preso dalla sindrome di Stendhal. E infatti ci metteremo più di due ore sotto il sole del mezzogiorno nel deserto nel tentativo di far riemergere nella nostra mente la città, di riedificare i palazzi alcuni dei quali sono indicati solo da un perimetro e da poche pietre.

Il palazzo privato di Ciro e quello delle udienze, con alcuni bassorilievi nei portali semi crollati e i basamenti delle colonne che non ci sono più, sono stati identificati. Ma di altri edifici gli archeologi non conoscono ancora la funzione.

Giuseppe vorrebbe riportare in vita anche il giardino persiano, indicato da una targa in mezzo a una landa di sterpaglie: il deserto si è preso nuovamente tutto.

Ma prima di “perderci” in Pasargade c’è stata la tomba di Ciro il Grande! Il viale alberato, che fa da ingresso all’intera area, punta come una sorta di cannocchiale su un sarcofago che si erge semplicissimo e solitario contro il cielo del deserto. Del colore caldo del deserto. È una visione che non si dimentica: un basamento di sei gradoni che si restringono e sulla cui sommità c’è una semplicissima camera mortuaria. Per alcuni archeologi ricorda strutture funerarie o religiose della Lidia o della Frigia (Anatolia, Turchia) secondo altri della Mesopotamia, forse un tentativo di riunire gli stili delle civiltà dei popoli conquistati da Ciro. Popoli ai quali non solo aveva lasciato la libertà di continuare a professare i propri culti religiosi, come ho ricordato più sopra, ma per i quali aveva anche scritto una “carta dei diritti umani”. Incisa su un cilindro di argilla cotta, conservato oggi al British Museum di Londra, viene considerata dagli storici il primo riferimento scritto sui diritti umani. Il Cilindro di Ciro è oggi tradotto nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite e le sue clausole sono di fatto riprese nei primi quattro articoli della Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’ONU.

Alla sera, a Shiraz, giriamo per i giardini di cui questa città è ricca e arriviamo in quello dove è sepolto Hafez il grande poeta persiano del XIV sec., ancora oggi molto amato, tanto che si dice che in ogni casa iraniana ci sia un libro di sue poesie.

Il suo sarcofago è collocato su di un piedistallo di tre gradini sotto una cupola rivestita di piastrelle di maiolica che, montata su duplici colonne sottili ed eleganti, dà una sensazione di leggerezza; sulla lastra di marmo l’iscrizione di alcuni versi cantati dal poeta.

Il giardino intorno, ricco di acqua e piante e aiuole e di sale da tè, è affollato di giovani, ragazzi e ragazze, che in gruppi separati sembrano giocare fra di loro di lontano.

Giuseppe ed io ci chiediamo fino a quando il regime riuscirà nel perseguire una repressione sessuale così forte nei confronti di una popolazione a maggioranza composta di giovani.

E mentre facciamo queste considerazioni, vediamo che dai gruppi si stacca una coppia che si avvia verso una panchina appartata, meno illuminata; nel sedersi lui le prende la mano, lei, sorridendo, lascia cadere il velo sulle spalle e mostra i capelli.

Anche Shiraz è una città ricca di storia e monumenti affascinanti, ricordata per i suoi vigneti che non possono più produrre il vino famoso in tutto il mondo, ma solo uva da tavola o passita. Soprattutto è reputata la città colta, patria dei più grandi poeti persiani (di Sa’di oltre che di Hafez) di matematici, astronomi e filosofi, oggi rinomata per la sua università d’eccellenza nel campo medico.

A Karim Khan Shah della breve dinastia Zand (XVIII sec.) che amò farsi chiamare vakil (reggente), si deve la costruzione di molti edifici ancora oggi pregevoli: della cittadella Arg-e Karim Khan dove dimorava, una fortezza con alte mura e quattro torri circolari, una ad ogni lato, le cui stanze si aprono su un giardino persiano arricchito da un agrumeto; di un bellissimo hammam, Hammam-e Vakil con un prezioso soffitto a volta ed anche di uno dei tanti bazar della città che si chiama appunto Bazar-e Vakil.

Il giorno dopo, alla mattina presto, con Zahara, visitiamo la Masjed-e Nair-al-Molk, detta comunemente la Moschea rosa dal colore delle ceramiche utilizzate nella sua decorazione. Costruita nel XIX sec. è nota per la sua eleganza e perché nella prime ore del mattino nella sala di preghiera invernale le vetrate ampie e multi-colorate filtrano la luce del sole creando effetti di luce straordinari. Bellissimo il mirhab che reso caldo dalle sfumature rosa delle maioliche mi fa l’effetto di una culla.

Ma soprattutto questo è il giorno dedicato a Persepoli!

Persepoli è la città voluta da Dario, la città simbolo della grandezza e dell’unità dell’impero, luogo unicamente cerimoniale dove le delegazioni di tutti i popoli venivano ricevute e dove venivano offerti tributi e onori al sovrano. E che Alessandro Magno distrusse a sancire, in questo modo, la fine del grande impero degli Achemenidi.

Più nota a noi con il nome greco, in realtà essa si chiamava Parsa in antico persiano e prendeva il nome dalla regione omonima da cui originava la dinastia achemenide. La sua costruzione ebbe inizio intorno al 520 a.C. e proseguì sotto il regno di Serse II e degli altri sovrani fino alla sua distruzione avvenuta nel 330 a.C. circa.

Proprio perché città simbolo dell’unione di tutti popoli, essa puntava sulla magnificenza, e su di uno stile comprensivo delle culture dei diversi popoli che convivevano sotto lo stesso impero. E anche se oggi non vediamo che rovine, esse riescono comunque a farci vedere la sua passata grandiosità.

Collocata su di una sorta di terrazza costruita artificialmente spianando rocce e livellandole con massi appositi ha una superficie di circa 125.000 mq fortificata, un tempo, da alte mura e da torri. Si accede alla città attraverso doppie scalinate dai gradini bassi per rendere l’incedere delle delegazioni più scenografica e permettere la salita agli animali che i rappresentanti delle satrapie portavano in dono al sovrano. Sembra ancora di vederle, le delegazioni, attraversare la Porta di tutte le Nazioni sorvegliate da tori alati androcefali, in stile assiro, per arrivare in fronte al Palazzo delle Cerimonie, annunciate con squilli di tromba. L’entrata nel Palazzo avveniva, poi, attraverso un’altra, simile, scalinata arricchita da bassorilievi di incredibile fascino e raffinatezza. Vi sono scolpite le figure dei delegati di tutte le satrapie con cui Dario aveva diviso il regno, rappresentati con le loro tipiche vesti e con i doni: gli Egizi con i cammelli, gli Elamiti coi buoi, i Lidi che offrono gioielli e poi gli Etiopi, i Traci, i Babilonesi e così via, intervallati dalle figure degli Immortali, i soldati che costituivano il corpo scelto del sovrano. In un’altra parte del muro si vedono i cortei dei Medi con gli abiti corti e dei Persiani con le lunghe vesti e la raffigurazione dei dignitari che vanno incontro alle delegazioni. Il corteo del sovrano è un altro esempio di sincretismo artistico che è anche specchio di sincretismo di costumi dei popoli dell’impero, con il sovrano coperto da parasoli di orientamento indiano.

I doni offerti venivano raccolti in un palazzo apposito detto appunto del tesoro.

Ogni palazzo – quello delle cento colonne, quelli privati di Dario e Serse – è arricchito di figure che rimandano al potere del sovrano o alla simbologia religiosa dello zoroastrismo. Campeggia la rappresentazione della lotta fra leone e toro, l’anno nuovo che divora quello vecchio, che simbolizza il Capodanno persiano, festeggiato nel giorno dell’equinozio primaverile, il giorno di Nouruz.

Questa ricorrenza è ancor oggi festeggiata in modo molto sentito dagli iraniani, cosa che non piace al regime attuale proprio perché festa pre-islamica. Come non piace al regime ogni riferimento alla grandezza dell’impero achemenide.

Così il riconoscimento dell’eredità culturale dell’impero achemenide e sasanide e della civiltà pre-islamica in generale e l’orgoglio di tale appartenenza, la considerazione in cui sono tenute le figure di Ciro e di Dario sono per molti iraniani una forme di opposizione alla situazione attuale. Tanto che visitare le antiche vestigia di Persepoli e Pasargade non è solo un fatto culturale, ma si configura come un pellegrinaggio. Che fu grande anche quando nel 2012 il British Museum prestò all’Iran il Cilindro di Ciro, con tutto il suo carico di significati, per essere esibito a Tehran: l’afflusso di gente fu tale che il museo londinese si vide costretto a prolungare il prestito.

La giornata di Persepoli è però anche la “nostra giornata” perché il desiderio di vedere la capitale dell’Impero Persiano è stato lo stimolo iniziale del nostro viaggio. Abbiamo inseguito nei nostri viaggi le testimonianze di (alcune di) quelle che sono state le più importanti civiltà che hanno influito e portato alla nostra. Dalla Mezzaluna Fertile (la “culla della civiltà”) al bacino del nostro mare, il Mediterraneo.

Italia, Grecia, Turchia, Egitto, Giordania…Iran. Romani, Greci, Ittiti, Assirobabilonesi, Egizi… Persiani.

Persepoli era la capitale imperiale che volevamo raggiungere. E sotto quel sole caldo, abbagliante ma non opprimente, abbiamo passato alcune ore dentro quel mondo che avevamo desiderato conoscere. Con i cortei delle delegazioni, venute a portare i loro tributi all’imperatore 2500 anni fa, che ci sfilavano davanti.

Si, eravamo arrivati a Persepoli, lo stimolo iniziale del nostro viaggio, la chiave che ci ha portato poi a conoscere anche un Iran dal fascino incredibile e dalla storia infinita.

Ora potevamo iniziare il nostro viaggio di ritorno.

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