di Francesco Colombrita
La vita in un konbini è meravigliosamente persistente, ripetitiva, ordinata. Le giornate si susseguono con affidabile monotonia, donando il calore del nido agli avventori abituali. La maggior parte sono aperti ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Vendono merendine, dolcetti, bevande, tramezzini, ramen, caffè, cioccolatini. E acqua, nei giorni molto caldi bisogna sapere che bisogna sistemare più bottigliette sugli scaffali e nei frigoriferi.
Occorre sapere che al contrario, col freddo, alcune pietanze calde andranno per la maggiore. Tutto questo produce una strana sinfonia, è la musica del konbini, quella musica che Keiko sente risuonare e che cavalca e che la guida, nelle sue giornate di lavoro. La maggior parte delle persone non la capisce. Quello è un lavoro part-time adatto solo agli studenti, o ai fannulloni. Perché mai lei dovrebbe ancora stare lì? Nessuno capisce che probabilmente Keiko ha trovato la propria musica, nel suono di quei tintinnii e della porta che si apre, nella forza di quella pedante ripetitività. Allo stesso modo poi, è lei a non capire le persone. Non ci è mai riuscita. Ha finito per fare proprie le espressioni degli altri, le loro reazioni, i loro pensieri in superficie, per far sì di non sembrare del tutto fuori posto. Si è creata una maschera per ogni occasione. Ma non quella del konbini, forse quel travestimento si è davvero rivelato essere la sua pelle.