di Francesco Colombrita

Edito Einaudi, 459pp, 2015
Ogni scomparsa lascia sempre un vuoto profondo, rompe un qualche tessuto della realtà, e chi rimane si ritrova bloccato da fili invisibili. Se a svanire nel nulla è un ragazzo di quasi 12 anni la frattura è davvero tremenda. Si apre un tempo sospeso che non permette di elaborare alcun tipo di lutto, che lascia spazio a una speranza mutevole che non fa altro se non schiacciare sempre di più le vite di una famiglia come tante. Si arriva al punto in cui la morte è l’unica soluzione ma il pantano dell’insicurezza non lascia che si vada avanti. Può il ritorno di quello stesso ragazzo, vivo e abbastanza in salute, quattro anni dopo, riempire quel vuoto?
Bret Anthony Johnston racconta esattamente questo: una voragine incolmabile. Il ritorno del giovane Justin alla famiglia si annuncia come salvifico ma i complicati anni trascorsi hanno lasciato tracce indelebili sulle vite dei genitori e del fratello minore. Sullo sfondo si intravede l’arresto e il processo del rapitore, ma questo è quasi il solo legame con quello spazio di quattro anni che solo Justin potrebbe raccontare. E non lo racconterà. Sì perchè Johnston in questo romanzo sfugge a ogni voyeurismo, gioca con i generi per restituire al lettore il racconto non tanto dei nodi afferibili al thriller ma di una quotidianità spezzata. Indaga una strana liturgia dell’assenza. Questo avviene attraverso una descrizione puntuale ma mai didascalica di stati d’animo, sensazioni, dolori, di tutti i componenti di quella famiglia media americana la cui vita è andata distrutta.