PAROLE COME DIAMANTI: ESSERE SENZA DESTINO DI IMRE KERTÉSZ

Se chiudete gli occhi e pensate ad un campo di concentramento, come lo vedete?

Personalmente, lo vedo in bianco e nero. Sarà per i filmati e le foto d’epoca, ma lo immagino così: in bianco e nero e innevato. Invece, nonostante la ferocia distruttiva degli uomini, la natura continuava il suo percorso, mostrando tramonti rossastri, prati verdi, nuvole basse e dense di pioggia, soli accecanti, foglie morte e fiori che sbocciavano.

Questo è, in parte, il senso di Essere senza destino (Feltrinelli, 2004), capolavoro dello scrittore ungherese Imre Kertész (1929), premio Nobel per la letteratura nel 2002 e scomparso il mese scorso, precisamente il 31 marzo, a 86 anni. Si tratta di un romanzo autobiografico che ricorda l’esperienza dei campi di concentramento in cui fu deportato, quindicenne, nel 1944, e da dove fu liberato, nel 1945.

Riassunta in questo modo, la vicenda può assomigliare, purtroppo, a tante altre. Ma non è così: la particolarità e, diremmo anzi, l’unicità del romanzo di Kertész, sta proprio nella differenza di percezione della tragica esperienza che si può riassumere in questo brano: “Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.

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E questo nonostante, al suo ritorno, nessuno dei suoi correligionari credesse ai suoi racconti, perché come disse ogni buon nazista ‘se lo racconterai, nessuno ti crederà’.

Probabilmente questa visione di Kertész si spiega in parte col carattere, quel misterioso connubio tra dna, apprendimento e anima, in parte con l’inarrestabile vitalità di un adolescente che, nonostante tutto, vuole vivere.

Se il romanzo è originale, il film quasi omonimo, Senza destino, è stupendo e rende le sensazioni percettive del protagonista.

Visivamente straordinario, con una fotografia splendida, la pellicola rende esattamente quel che l’autore provava: il contatto con la natura che, nonostante la prigionia, continuava ad esistere, ignara delle sofferenza umane. E attraverso il passaggio delle stagioni, il giovane sembra mantenere un rapporto con la vita, con un futuro che, nonostante tutto, continua ad immaginare. Quasi che la vitalità del ragazzo, mai spenta, si alimentasse di piccolissimi particolari per aggrapparsi ad una sopravvivenza incerta. Ed allora, perfino in una situazione disumana, un barlume di felicità può accendersi davanti a un fiore che emana il suo colore nel buio della vita.

Proprio questo attaccamento viscerale alla vita farà sì che il protagonista riesca a sopravvivere e a non disperarsi, una volta tornato a casa, davanti alla solitudine, all’incredulità e dal negazionismo perfino della sua stessa stirpe.

Danila Faenza © già parzialmente pubblicato su oggibologna.it

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