INTERVISTA AD ANGELA ROMANIN, DELLA CASA DELLE DONNE
di Francesco Colombrita
Novembre per Metro-Polis è ormai da anni il mese della solidarietà. È quel momento dell’anno in cui concentriamo i nostri sforzi associativi per la buona riuscita della Cena di Caterina, una cena di solidarietà appunto, il cui ricavato viene donato a realtà che necessitano di aiuto e delle quali condividiamo i valori. In tempi di Covid abbiamo reinventato la modalità di raccolta fondi, non potendo trovarci come di consueto attorno a una tavola imbandita, e deciso di destinare il ricavato alla Casa delle donne per non subire violenza. Quest’anno abbiamo cercato di attivare una rete su questo evento, raccogliendo la collaborazione del Cassero LGBTI+ center di Bologna, di Lesbiche Bologna.
Per raccontarci meglio questa realtà, attiva ormai da decenni, abbiamo intervistato Angela Romanin, responsabile della formazione della Casa delle Donne Bologna.
Per cominciare diamo una cornice, cos’è la Casa delle donne?
La Casa delle Donne Bologna è uno dei primi centri antiviolenza nati in Italia per rispondere al grave fenomeno della violenza agita contro le donne. Fu fondata da un gruppo di donne femministe alla fine degli anni 80, portando in italia esperienze già esistenti all’estero, in particolare nel Nord Europa. In quegli anni il dibattito sulla violenza contro le donne, nel nostro paese, era rivolto principalmente alla lotta per la legge contro la violenza sessuale. Su questa linea però ciò che rimaneva invisibilizzato era la violenza agita dal partner. Il progetto venne presentato al Comune di Bologna che credette molto nell’iniziativa e la finanziò. Il primo patto di collaborazione è del 1990, quest’anno compiamo 30 anni. Fin dalla fondazione sono stati tre i servizi che si sono messi in campo per contrastare il fenomeno: accoglienza, ospitalità (con l’ausilio fondamentale di una casa sicura a indirizzo segreto) e un settore di promozione con intervento culturale. Senza quest’ultimo aspetto ogni intervento sarebbe stato limitante, solo sintomatico, un po’ come svuotare il mare con un cucchiaino. Il problema vero è sistemico, occorreva, e occorre, un cambio di mentalità.
Quel sistema che potremmo chiamare patriarcato insomma, come combatterlo?
Sì, esatto! La parola giusta è proprio patriarcato. Siamo di fronte a un sistema pervasivo che non è facile da disinnescare. Per farlo l’aspetto principale è quello della rete, sviluppata su due fronti: una rete di realtà che lottano unite da un lato, ma anche la presa in carico dei vari piani che si intrecciano al fine di indentificarli e agire sistematicamente. In questi termini è fondamentale la lettura del contesto. Non si può intervenire solo su un aspetto e quindi come realtà impegnata su questo fronte abbiamo sempre cercato di fornire vari livelli di supporto: reti di supporto rivolto ai minori, alla genitorialità, formazioni professionali. E ovviamente crediamo abbia un enorme peso un’evoluzione culturale. Un esempio in questo senso è il Festival della violenza illustrata che realizziamo ormai da anni a novembre. Si tratta di un evento ricco di iniziative che spaziano su vari ambiti, dalla letteratura alla scienza, con mostre, convegni, presentazioni… Lo scopo è quello di far emergere gli aspetti che rimangono spesso più marginali della violenza, e quindi meno facilmente identificabili.
Un esempio su tutti può essere quello del linguaggio. Le parole plasmano il nostro modo di vedere le cose. Basti pensare che storicamente per indicare l’abuso e la violenza nei confronti dei minori si utilizzava il termine “incesto”, ma questa espressione richiama alla mente un reato contro la morale, e non una lesione ai danni di una persona. Se sembra assurdo ricordo che fino al 1996 in Italia pure la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale. E anche oggi è molto più facile sentir usare la parola “molestia” invece della parola “violenza”, il che ovviamente ha un effetto sminuente rispetto al fenomeno. Si cerca di occultarlo. Allo stesso modo anche quando si parla degli aggressori occorre attenzione. Noi cerchiamo di parlare sempre di uomini che hanno agito violenza e non di uomini violenti, a segnalare che la violenza è un comportamento acquisito, non connaturato. Fare questo però vuol dire farsi carico almeno in parte della responsabilità di quel sistema. E non è facile. Per quello parlavo di cambio di mentalità necessario: ogni volta che si sente parlare di un caso di violenza contro le donne moltissime persone si chiedono perché la donna non abbia denunciato prima, perché non se ne sia andata. Quasi nessuno si chiede invece come mai l’uomo in questione abbia agito violenza. Siamo all’interno di una retorica di colpevolizzazione della vittima, dobbiamo cercare di invertire la narrazione.
Formazione e sensibilizzazione come aspetti primari dunque?
Sì, infatti come dicevo fin dalla nascita della Casa delle Donne la formazione era tra i servizi ritenuti fondamentali. In primo luogo, storicamente, abbiamo offerto formazioni con lo scopo di creare altri centri come il nostro, tanto che siamo tra le fondatrici del DiRe (Donne in rete contro la violenza, nda), la rete dei centri antiviolenza estesa su tutto il territorio nazionale. Oltre a questo abbiamo sviluppato rapporti organici con le istituzioni per formazioni specifiche. Andiamo spesso nelle scuole, dalle elementari alle università. Per quanto riguarda le scuole l’obiettivo è duplice: lavorare su quel sistema che replica la violenza di generazione in generazione, sensibilizzando gli studenti, ma anche far emergere casi esistenti. Ci siamo sempre battute, in Emilia Romagna, perché esistesse un piano antiviolenza regionale e non semplicemente una legge. Solo con un piano strutturato si può pensare di disinnescare un fenomeno così complesso e pervasivo. In questi termini per noi è stato necessario allontanarsi da un dibattito che ragionasse solo in ottica di una legge penale, dirigendo le nostre energie nella volontà di creare un sistema multidisciplinare e multisettoriale di intervento. Infatti, il Piano regionale antiviolenza è incardinato nella Legge Quadro per la Parità e contro le Discriminazioni di Genere (legge regionale 6/2014) che giustamente va a leggere la violenza contro le donne all’interno di un quadro di discriminazione complessiva.
Non credete necessario un sistema penale più forte o una recrudescenza delle pene?
Le leggi ci sono già sotto questo profilo, anche troppe, l’importante non è la loro esistenza ma la forbice che intercorre tra questo e la loro applicazione. Posso fornire un esempio. Dal 2001 in Italia è entrata in vigore la legge n.154 del 5 aprile. Con questa norma è stata introdotta la possibilità per i giudici di disporre, in gravi casi, l’allontanamento coatto dal tetto coniugale e ordini di restrizione preventivi inaudita altera parte. Cioè senza parlare prima con la persona denunciata. Questa norma è a tutela della donna, ed è fondamentale perché spezza il circolo vizioso che porta le donne a non denunciare perché hanno timore che la violenza si aggravi. Purtroppo però questa legge sul territorio nazionale è applicata a macchia di leopardo. O perché non si conosce o per la resistenza del sistema legale di certi territori nell’attuarla.
Si torna al tema delle formazioni…
Come accennavo ci sono categorie professionali molto refrattarie. Spesso ci siamo sentite dire da persone che partecipavano alle nostre formazioni frasi come «non credo che il problema sia esteso quanto dite perchè nella mia esperienza professionale non ho mai incontrato donne maltrattate», oppure «la sola formazione che mi occorre è quella che ho già ricevuto durante il mio percorso di studi» ecc ecc. Si attuano meccanismi per evitare di affrontare quella violenza, perché riconoscerla provoca dolore. Basti pensare alle conseguenze che possiamo vivere nell’immaginare una violenza ripetuta su un minore. In un qualche modo le persone negano il fenomeno per non dover gestire quella sofferenza. Patrizia Romito, ad esempio, ha lavorato molto sulla descrizione dei meccanismi di negazione, o rimozione, o normalizzazione che intervengono in queste dinamiche.
Sui giornali durante il lock down si è letto molto in merito a una preoccupazione diffusa per la violenza contro le donne, chiuse in casa e costrette a non uscire. Dal vostro osservatorio cosa è emerso?
Durante la quarantena abbiamo registrato un calo sensibile delle richieste nuove d’aiuto. Ovviamente perché in molti casi le donne maltrattate non avevano un momento per sé per chiamare in riservatezza, il partner era a casa da lavoro o comunque c’erano i figli che non andavano a scuola.
Abbiamo cercato di rispondere a questa difficoltà attivando una linea whatsapp con un numero telefonico che permettesse di chattare. In questo modo anche in situazioni di non isolamento chi ha necessità può contattarci più discretamente (Il numero da contattare per questo servizio è 388 4017237, nda). Oltre a questo, per chi se la sentiva e aveva possibilità, abbiamo intensificato gli appuntamenti via skype e il servizio ha in effetti avuto successo.
Un’indicazione importante da parte del governo durante il lock down c’è stata: la ministra Bonetti aveva rilasciato un comunicato in cui affermava che richiedere aiuto in caso di maltrattamenti o violenza era considerato «stato di necessità» per uscire di casa, anche con un’autocertificazione lasciata in bianco, per proteggere la propria sicurezza.
Poi sarebbe stato da spiegare alle forze dell’ordine
Questo non credo che sarebbe stato un problema. In realtà le forze dell’ordine hanno collaborato moltissimo nelle emergenze durante il lockdown. E’ categoria professionale tra le più disponibili a fare formazione, e questo si è visto anche nelle rilevazioni Istat che ci dicono che le donne che hanno subito violenza sono molto più soddisfatte che in passato dell’accoglienza che hanno avuto da parte delle forze dell’ordine.
In italia com’è la situazione generale?
L’Italia sconta una decina d’anni di arretratezza rispetto al resto d’Europa. Tanto è vero che il Grevio (Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne, nda), che si occupa di sovrintendere il rispetto della convenzione di Istanbul (convenzione per la lotta alla violenza contro le donne), ha rilevato molte criticità nella situazione dell’Italia. Ci sono indicatori preoccupanti e che ci possono far riflettere. Negli ultimi 10 anni, secondo l’Istat, il numero di omicidi nel nostro paese è calato di quattro volte: ma il numero dei femminicidi è rimasto invariato. Sulle cause di questo fenomeno si potrebbe dibattere a lungo, ma notiamo che uno dei problemi principali è legato proprio al nostro sistema giudiziario/istituzionale, che ha difficoltà a recepire e applicare le norme e i protocolli. La prevenzione si basa su un sistema di rete che spazia dai giudici all’assistenza sociale, occorre fare una valutazione del rischio iniziale che permetta di capire come muoversi. Il problema è che a volte rimangono aperte delle falle in questo sistema. L’anno scorso a Castello d’Argile è morta una donna proprio per un difetto di questa rete: il partner era stato allontanato con un’ordinanza ma, per un difetto di comunicazione su questo, è riuscito a tornare e a uccidere la donna che lo aveva denunciato.
Qual è il vostro rapporto col movimento femminista?
Il femminismo è la sola rivoluzione che non è ancora stata sconfitta. Non abbiamo ancora vinto e abbiamo tantissimo da fare ma non siamo ancora state sconfitte. Questo è il dato importante da tenere presente. Non bisogna mai abbassare la guardia perché si verificano colpi di coda del sistema, bisogna continuare a resistere in collegamento con tutte le donne che stanno lottando. Ovviamente bisogna essere rete.