AMARCORD: QUELLA GROTTA SPAVENTOSA: L’OMICIDIO DI LEONARDA POLVANI

Per chi non la conosce, Bologna è le Due Torri, il Nettuno, i tortellini ed altri particolari indicibili, come la famosa cartolina delle 3 T (torri, tortellini e tette). Ma solo chi vive, chi è nato a Bologna può conoscere questa Misteriosa Signora. E forse neanche loro. Non è un caso che in questa città, conosciuta come ricca, gaudente, comunista e consumista, si sia formato un gruppo conosciuto come ‘i giallisti bolognesi’. Perché Bologna, unica al mondo con i suoi quasi 40 chilometri di portici, sa nascondersi bene. E per scoprirla è necessario viverla, vederla, passeggiarla. E neanche questo basta.

C’è la Bologna lussuosa, del Pavaglione fino ai quartieri ‘alti’; c’è la Bologna universitaria, antica, popolata e degradata; c’è la Bologna sotterranea, che con la sua archeologia racconta di una città d’acqua simile a Venezia; la Bologna che è nata addirittura nella preistoria, come testimoniano i reperti risalenti al Paleolitico Inferiore; c’è la Bologna fascista di via Marconi, con i suoi palazzi austeri e orrendi e la Bologna fascista che tuttora vive intorno a Porta Lame, con le sue case popolari che favorivano la socializzazione tra le persone. E poi c’è la Bologna periferica, divisa tra quartieri nuovi e anonimi e posti incredibilmente arcaici e selvaggi. E si potrebbe continuare. Ma ci fermiamo qui, per dire che oltre ai famosi ‘colli bolognesi’ cantati da i Lunapop (primo gruppo di Cesare Cremonini), Bologna è circondata da un hinterland che l’attraversa come una linea retta, da Casalecchio di Reno a San Lazzaro di Savena.

Ricordo ancora, con emozione e meraviglia, una piccola gita fatta con amici trent’anni fa: volevamo fare un servizio sul famoso e misterioso fenomeno delle formiche che vanno a morire proprio sul monte omonimo, il Monte delle Formiche, in Val di Zena: io, bolognese doc, con radici risalenti proprio a quella zona, mi ritrovai in un paesaggio lunare, proiettata in una sorta di Far West, un deserto circondato da calanchi in cui spiccava uno spaccio di crescentine, come in un film western in cui, in mezzo al deserto, appare un distributore di benzina. Irreale.

È vicino a quella zona che, il 3 dicembre 1983,  viene ritrovato il cadavere di Leonarda Polvani, una ragazza di 28 anni scomparsa quattro giorni prima. È l’ultimo dei delitti che una paranoica fantasia giornalistica attribuisce al ‘Mostro del Dams’, un nuovo corso di laurea legato a Lettere e Filosofia, fortemente voluto da Umberto Eco e Renato Barilli.

Il corpo viene ritrovato, per caso, da due guardiacaccia che stanno perlustrando la zona: in quei pressi ci sono varie grotte ma una in particolare, quella che è stata chiusa al pubblico perché, oltre ad essere una colonia di pipistrelli, è una delle più antiche, isolate e, quindi, usata dalla malavita per traffico di armi, di droga, perfino di messe nere.

La grotta della Croara in cui è stato ritrovato il cadavere

La grotta della Croara in cui è stato ritrovato il cadavere

I guardiacaccia realizzano che il filo spinato e la catena che proteggevano la grotta sono state recise con dei tronchesi. E da poco. Si inoltrano nel luogo e rinvengono una borsetta con i documenti di quella ragazza che, da alcuni giorni, è sparita. Poi una sciarpa rossa, delle calze e, infine, il suo corpo straziato.

L’evento scuote di nuovo la città, forse ancora di più che per il ‘caso Alinovi’, perché Leonarda, detta Lea, ha una vita trasparente: non usa droghe, non frequenta strani giri, non ha amanti. È sposata da un anno e mezzo, lavora come disegnatrice di gioielli, ha ripreso gli studi al Dams per laurearsi (le mancano tre o quattro esami). Il giorno della scomparsa aveva avvisato il marito che sarebbe tornata tardi a casa, ma parliamo dell’orario di cena, non di una rientrata notturna. Dopo il lavoro è andata a casa di un’amica, compagna di studi, per mostrarle alcuni gioielli: l’amica compra un paio di orecchini, poi insieme vanno a trovare un’altra amica – che ha un negozio di abbigliamento – e, quindi, Lea torna sotto casa dell’amica, in via Mazzini, dove aveva parcheggiato l’automobile. Da via Mazzini si dirige verso casa, all’altro capo della città, a Casalecchio di Reno, in via Serenari; lì arriva, parcheggia l’auto dietro quella del marito ed esce dal garage per raggiungere il cancello del condominio in cui abita. In quei cinque metri che la separano dalla sua abitazione, Lea scompare. Porta con sé una confezione di sei uova ed un pentolino con i resti del pranzo. Non vedendola arrivare, il marito chiama i suoceri, che abitano sullo stesso pianerottolo, per sapere se la ragazza si è fermata da loro, ma così non è. Tante telefonate, a parenti ed amici, ma nessuno ha visto Lea. Quando il marito raggiunge il garage per prendere l’auto ed andarla a cercare, il sangue gli si gela nelle vene: l’auto della moglie è lì, col motore ancora caldo. Perché non  è casa, quindi?

Alle 23 chiama i carabinieri per denunciare la scomparsa della moglie, ma passano quattro giorni senza risposta.

Lea viene ritrovata, per caso, nella grotta della Croara, località vicina a San Lazzaro, dalla parte opposta di Casalecchio di Reno: è seminuda, dalla vita in giù. Le hanno tolto gli abiti per simulare una violenza che non è avvenuta. Gli oggetti preziosi che indossa (la fede, alcuni anelli, un orologio d’oro) suggeriscono che non è stata rapinata. Alcuni segni intorno al collo vogliono simulare uno strangolamento, ma Lea muore a causa di un colpo di pistola al cuore, sparato a bruciapelo.

Perché e da chi è stata uccisa? Escludendo lo stupro e la rapina, le indagini si indirizzano sull’ambiente lavorativo: qualcuno voleva da lei qualcosa. Forse informazioni sul laboratorio orafo in cui lavora, forse la combinazione della cassaforte. Telefonate anonime su un’auto parcheggiata davanti alla grotta non  portano a nulla. E, dalla ricostruita dinamica dei fatti, pare che i delinquenti siano partiti dall’ipotesi di uccidere Lea in ogni caso: la pistola piccola, facilmente occultabile; il calibro piccolo ma letale e silenzioso; l’attrezzatura per entrare nella grotta, lo studio del luogo in cui lasciare il cadavere sono tutti elementi che fanno pensare alla premeditazione.

La via in cui abita Lea è una via residenziale, chiusa. Da lì passa solo chi ci abita e chi va a trovare i residenti. Nei giorni precedenti la tragedia, qualcuno nota un’auto sospetta, da cui esce un individuo che va a controllare i nomi sui campanelli del numero civico in cui abita. Quell’auto viene notata ancora, con a bordo persone che sembrano discutere. Erano persone che controllavano la ragazza?

Ma perché programmare di uccidere un’innocente in cambio di nulla? È un inquietante interrogativo a cui ancora nessuno ha potuto rispondere.

© Danila Faenza

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