VIOLENZA DI GENERE OGGI. È TUTTO CHIARO?

di Angelo Errani

Sono rientrato dalla serata dedicata alla violenza di genere dalla associazione Metro-Polis presso la Casa di Quartiere Centro Stella di Bologna con il bisogno di capire meglio. La testimonianza del prezioso lavoro di Caterina Righi, Giorgia Mazzanti e Gerardo Lupi ha confortato lo spaesante sentimento di impotenza che provo di fronte al ripetersi ormai quotidiano dei femminicidi ed alla consapevolezza dell’enormità del problema e ne sono loro grato. Ma sento l’esigenza di richiamarne le competenze affinché possano contribuire a ricercare se alla cultura patriarcale che ci condiziona da secoli non si aggiungano aspetti che caratterizzano questo nostro presente.

Accanto agli elementi di continuità la storia presenta sempre infatti anche aspetti di cambiamento. Per cui riterrei importante chiederci: i cambiamenti culturali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni potrebbero aver contribuito all’affermarsi di comportamenti relazionali particolarmente disumani?
Potrebbero questi riferimenti culturali anestetizzare le coscienze al punto di non provare più alcuna vergogna neppure delle azioni più aberranti?Dobbiamo riconoscere che negli ultimi decenni è avvenuto un cambiamento profondo. Lo sfondo relazionale caratterizzato dalla ricerca di ciò che univa è stato progressivamente eroso e soppiantato dall’affermarsi di un individualismo che non conosce limiti.

Il fermento culturale e sociale che caratterizzò le società dalla metà del ‘900, in cui assistemmo alle lotte di liberazione di tanti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, alle lotte contro l’esclusione dai diritti civili dei neri americani ed al propagarsi in Europa dei movimenti degli studenti contro la scuola di classe e degli operai contro lo sfruttamento e le ingiustizie aveva aperto una stagione di ricerca di ciò che univa e di considerazione degli altri come risorsa. Ogni aspirazione di giustizia particolare si aggiungeva a quella degli altri fino a raggiungere in quegli anni un’ampiezza ed un’unità straordinaria. Era come se tutte le lotte del mondo fossero parte dello stesso movimento: ciascuno si riconosceva e sentiva come propria la lotta degli altri e riceveva dagli altri la solidarietà per la propria causa. A chi è nato e vissuto negli anni seguenti i tanti diritti sociali – e di conseguenza anche individuali – conquistati grazie a quella stagione saranno sembrati, forse, presenti da sempre e c’è in questo una responsabilità che abbiamo noi, oggi anziani, che evidentemente avremmo dovuto custodirne molto meglio la memoria. Non è così. Quei diritti furono conquistati grazie alla solidarietà, cioè al riconoscersi nelle ingiustizie sofferte dagli altri, che caratterizzò quelle lotte.
Dagli ultimi decenni lo sfondo è progressivamente cambiato. I riferimenti culturali e, di conseguenza, comportamentali, sono diventati altri. Il liberismo e l’individualismo hanno occupato la scena.

Non preoccupiamoci della distribuzione delle risorse e dell’equità sociale, delle preoccupazioni per una democrazia stabile, di migliorare altri aspetti della qualità della vita degli esseri umani che non siano collegati direttamente alla crescita economica […] la crescita economica porterà infatti automaticamente tutto il resto: sanità, istruzione, diminuzione delle disuguaglianze.” Nussbaum M.C. (2011), Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino.

È questa l’enorme illusione che si è affermata sul piano globale e che ha esaltato esponenzialmente la cultura dell’individualismo e marginalizzato come utopie le istanze di condivisione e solidarietà. L’esaltazione della soggettività, della legittimazione della motivazione individuale su tutto il resto, ha poi comportato la riduzione narcisistica della realtà ai miei interessi immediati, qualunque ne siano poi le conseguenze. E’ evidente che se io assumo come unico riferimento ciò che è interesse per me, escluderò implicitamente ogni ragione e diritto degli altri. L’affermazione dell’io viene poi esaltata dalla esibizione narcisistica testimoniata dalla capacità di consumo. La logica del consumo si organizza in base alla sequenza: mi impossesso, uso e getto, un comportamento che, normalizzato sul piano culturale, non si limiterà ovviamente alle sole merci, ma inevitabilmente contamina il campo delle relazioni sociali e individuali. L’io si è dunque affermato come valore assoluto e autosufficiente, sbarazzandosi della consapevolezza che siamo necessari gli uni agli altri.

L’etica di un io che non conosce limiti è poi in rapporto con l’idea di una tecnologia che illude che tutto sia possibile e che in tal modo nasconde il rischio di farci diventare oggetti delle stesse forze che abbiamo attivato.
Ritengo che non sia possibile analizzare un problema prescindendo dalla sua contestualizzazione storica e sociale. Nel contesto attuale delle relazioni interpersonali c’è indubbiamente il macigno del patriarcato i cui effetti perdurano in questo nostro presente, ma ad esso si aggiunge il veleno dell’individualismo consumistico, e la somma delle due componenti è all’origine degli effetti devastanti che stiamo vivendo non solo sul piano economico-sociale ed ambientale ma anche su quello delle relazioni interpersonali.
Ne vogliamo una testimonianza ? Il trentennio berlusconiano è sufficiente per darcene la misura?

C’è ancora domani?

È la domanda che ci suggerisce il titolo del bel film di Paola Cortellesi. Holderlin scriveva che “La dove c’è il pericolo cresce anche ciò che lo salva”. Non possiamo dunque trascurare di capire le caratteristiche vecchie e nuove del pericolo. La violenza nelle relazioni non genera cose buone per nessuno, ma sofferenza per le vittime e azioni di cui ci si può solo vergognare per i carnefici.

I carnefici è giusto che si vergognino, ma è importante che ciò costituisca il punto di partenza di un percorso, come quello illustrato da Gerardo Lupi, in cui riescano a scoprire che non c’è alcun guadagno nell’umiliare e nel sentirsi padroni, recuperando così progressivamente la propria umanità. Le vittime hanno invece bisogno di non vergognarsi più. E l’impegno della “Casa delle donne per non subire violenza” illustrato da Caterina Righi ne fa il punto di partenza di un percorso di dignità e di ricostruzione di un progetto di vita.

I progetti agiscono rispetto a situazioni che, pur con tanta fatica, si sono rese visibili. E ciò che non riesce ad emergere? Ciò che è sommerso è evidentemente vasto quanto il mare ed in continua rigenerazione. Farlo emergere è un obiettivo dei progetti, come quello illustrato da Giorgia Mazzanti, finalizzati all’educazione dei più giovani. Un’operazione ostacolata dal ministro di un governo che spaccia per soluzione il punire per educare. Da ciò deriva puntualmente nuova esclusione che, a sua volta, produce sofferenze, marginalità e violenza.

Educare richiama invece un percorso di scoperta, che deve essere offerto a tutti, se desideriamo una comunità in cui le relazioni sociali e interpersonali non abbiano né servi né padroni. Scoperta di che cosa? Scoperta che le relazioni di potere, tanto quelle sociali che quelle interpersonali, sono oggi diventate più nascoste e, proprio per questo, più subdole e pervasive, al punto da farci apparire naturale la sottrazione della nostra libertà. L’oppressione non si presenta mai apertamente, essa si nasconde dietro i panni del prestigio, dell’ambizione, della reputazione, dell’adulazione e non è facile smascherarne il vero volto e la finalità, che è il controllo delle vite. Grazie alle sue maschere essa ottiene l’ubbidienza e la conseguente atrofizzazione dei sentimenti. E’ dunque decisivo accompagnare soprattutto chi sta crescendo a scoprire che conviene sottrarre almeno i sentimenti allo scempio del consumo. Occorre offrire l’opportunità di capire che l’essere abituati fin dall’infanzia a rincorrere oggetti usa e getta e a desiderare l’ultima novità, che nella nostra società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità, ci sottrae inevitabilmente dal provare la gioia della cura di relazioni in cui ci si aiuta l’un l’altro a diventare migliori. Occorre inoltre offrire occasioni per riflettere che il conflitto apparente fra libertà e sicurezza può comporsi riconoscendoci nelle reciproche fragilità e insicurezze.

Il mercato ha fiutato l’affare del nostro bisogno di amore e ci alletta con la promessa di poter aver tutto subito e senza far fatica, mentre per realizzare relazioni positive occorre impegno: ascoltare chi amiamo, dedicare parte del nostro tempo per aiutarlo nei momenti difficili, imparare a far incontrare i nostri bisogni coni suoi. Possiamo comprare le cose, non le persone. Non troveremo l’amore in nessun negozio. Le relazioni hanno bisogno di un impegno il cui riscontro di felicità dell’altro e di conseguente stima verso noi stessi compensa ampiamente la fatica.

“Educare è un verbo delicato”, diceva Margherita Zoebeli, un verbo che indica una direzione che non ha un punto d’arrivo, ma in cui il percorso dà senso al viaggio.

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