di Roberta Merighi
“Amir!”… non siamo ancora saliti sul taxi, che alle 3 di notte ci porta dall’aeroporto a Tehran, dopo un volo disastroso, che il taxista ci presenta la sua famiglia e ci mostra, sullo smartphone, la fotografia di Amir, il suo bimbo più piccolo, e della moglie. Poi chiede di noi, da dove veniamo, e ci offre dei pistacchi, mentre scivola veloce fra le strade deserte e buie alla volta di Tehran.
Eccoci in Iran!
Alle 9 del mattino, con poche ore di sonno alle spalle, Giuseppe e io aspettiamo la nostra guida.
Mona, una giovane ragazza, ci viene incontro sorridendo, al posto del velo ha una sciarpetta gialla corta, le cade sulle spalle di continuo, ma lei non sembra curarsene. Ci spiega subito il sistema della moneta iraniana con dei fac-simile stile monopoli, poi ci accompagna a cambiare gli euro (al posto di una banconota da 100 euro ripartiamo con 3 etti di rial, ho dovuto utilizzare una borsetta solo per loro) e ad acquistare una sim locale. Anch’io ho messo il velo e una tunica lunga sui pantaloni, secondo i dettami del regime. Nel seguirli mi viene da pensare che bisogna odiare molto le donne o averne una grande paura per infliggere loro, alle giovani soprattutto, questa mortificazione. E anche se, come dice qualcuno, le regole imposte “sono meno rigide di quanto voi pensiate in occidente” ci sono e sono fatte rispettare dai Guardiani della Rivoluzione.
Poi, però, vedo tante ragazze per strada che, con i loro soprabitini attillati, i foulard colorati dai bei disegni i cui lembi, incrociati sotto il mento, sono buttati sulle spalle, i loro visi truccati talvolta in modo marcato, le sopracciglia tatuate, cercano di sottrarsi per quanto possibile alle regole imposte. E proprio perché il viso è l’unica cosa che si può vedere, è piuttosto frequente incontrare giovani ragazze con i segni post-operatori di un intervento chirurgico di rinoplastica.
Tehran, che in passato è stata un insediamento famoso per i bei giardini e dimora per gli ambasciatori, fu scelta quale capitale dalla dinastia Qajar alla fine del ’700 per motivi strategici. Ma il suo volto odierno è stato disegnato dal primo Reza Pahlavi (1925-1941) che le ha impresso un volto occidentalizzante, con gli ampi viali alla Haussmann e la costruzione di edifici pubblici affidata ad architetti europei. Oggi è una città di più di 12 milioni di abitanti, fortemente inquinata, che ha conosciuto un forte sviluppo edilizio e che concentra la maggior parte delle attività industriali e commerciali del paese. Una sua particolarità è costituita dal fatto che la parte meridionale è lambita dal deserto e la parte settentrionale è protetta dai monti Elburz con un dislivello, fra le due zone, che va dai 1000 ai 1700 m. sul livello del mare. Le condizioni climatiche sono diverse, a favore dei quartieri a nord della città, e ciò ha determinato anche una differenziazione di classe fra quartieri meridionali più poveri e quartieri settentrionali ove dimorano le élite.
Il traffico è talmente caotico e intenso da far impallidire – o morire d’invidia – un napoletano (non me ne vogliano i partenopei). I pedoni sono ignorati e saltabeccano in mezzo alla strada fra le macchine. All’inizio addirittura Mona ci prende per mano per attraversare la strada, non sappiamo se perché ci ha preso per anziani rincitrulliti o se fa così con tutti quelli cui fa da guida.
La nostra prima tappa è il Museo Nazionale, una costruzione del 1928 disegnata da un architetto francese, una sintesi fra art déco e architettura persiana. Mona ci illustra la parte dedicata al periodo pre-islamico ed è una fortuna che ci sia perché tutto è indicato solo in farsi. Qui vediamo molti reperti provenienti da Persepoli che sarà la nostra ultima tappa e altre testimonianze del regno achemenide (550-330 a.C.) rinvenute a Shush, altro luogo importante nella storia dell’antica Persia. Inizialmente facciamo un po’ fatica a seguire le datazioni dei reperti non solo perché ovviamente qui non esistono l’“avanti” e il “dopo Cristo”, ma per la distinzione fra i calendari arabo e persiano. Per fortuna abbiamo diligentemente studiato prima di partire e Mona ci spiega tutto per bene.
Il bazar è affollato, frenetico e labirintico, come deve essere un bazar, e si estende per chilometri. Anche se la struttura ha solo 200 anni, comunque nel luogo si commercia almeno da mille. Gioiellerie, negozi di tappeti e di ogni genere di merce si susseguono ciascuno nei vicoli a loro dedicati, quelli delle spezie emanano inconfondibili profumi. Il bazar è inoltre un microcosmo in cui si trovano piccoli alberghi, ristoranti, moschee e banche. Ci fermiamo a bere un tè al cardamomo in cui immergiamo uno stick di cristalli di zucchero allo zafferano e osserviamo la folla degli acquirenti e la distribuzione delle merci fatta con i carretti, spinti a mano, che passano veloci. Qui siamo ancora alla vecchia logistica.
Al bar di uno dei giardini di Palazzo Golestan (o dei Fiori) consumiamo un pranzo leggero. Il Palazzo, situato in quella che un tempo era la cittadella e costituito da una serie di edifici, fu voluto e realizzato dalla dinastia qajara (1795-1925) per farne la propria residenza privata e di rappresentanza; qui venivano fatte anche le incoronazioni. Impressionanti, nella loro sfolgorante bellezza, la sala degli specchi, la sala del Trono di Marmo, costruito con l’alabastro giallo di Yazd, e la sala del Trono del Pavone dove fu incoronato l’ultimo Shah. Il palazzo è la testimonianza dell’arte persiana del periodo e la testimonianza dell’influenza esercitata sulla dinastia dall’arte e cultura europee.
Ultima tappa il ponte Ta’biat (Natura), nella zona settentrionale della città, un ponte moderno inaugurato nel 2014. Per arrivarci Mona ferma diversi taxi ma non s’accorda sul prezzo della corsa, fino a quando si ferma un giovane sulla sua Peugeot, a lui l’offerta di Mona va bene e saliamo in macchina. È l’ora di punta il traffico è intenso, ma lui riesce a saettare fra macchine, autobus, motociclette. Il ponte, tecnicamente molto innovativo, altamente tecnologico è solo pedonale e collega due parchi divisi da una strada ad alto scorrimento. Ma non unisce solo due realtà separate, vuole essere un punto di incontro fra le persone, vuole invitare a sostare su ciascuno dei suoi tre livelli corredati di panchine, aiuole di fiori e piante, caffè e piccoli ristoranti.
Quello che ci ha piacevolmente stupito, oltre alla bellezza del ponte, (e non può non stupire noi italiani che certo non dimostriamo di trattare bene i nostri giovani), non è tanto che il progetto sia il frutto della mente di una giovane architetta, solo venticinquenne, Leila Araghian, ma che sia stato approvato dalla municipalità di Tehran e che sia stato realizzato.
Insomma un largo alle giovani anche con il velo.
Ma l’Iran è anche questo: donne che lavorano si trovano in tutti i settori.
Prima di salutarci a fine giornata, Mona si guarda intorno, abbassa la voce e ci dice che lo Shah è stato troppo orgoglioso (o forse voleva dire troppo sicuro di sé) e ha lasciato molta libertà ai Mullah… Poi con fare complice ci mostra dal suo telefono un filmato in cui appaiono scene da una Tehran anni ’70: donne vestite all’occidentale con pettinature tipiche di quegli anni e spezzoni di alcuni show televisivi con donne elegantemente vestite che cantano o ballano, nessuna traccia di veli. Poi, a poco a poco, queste donne scompaiono e le scene rimangono vuote, le luci si spengono e l’ultima immagine è quella di un gruppo di donne in ciador, riprese di spalle, che camminano per una Tehran buia.
Alì è il driver che ci conduce il giorno dopo da Tehran a Kashan. Ha un sorriso aperto, è gentile. A un certo punto si ferma a lato della strada, all’ombra di alcuni alberi, e scende dall’auto. Apre il bagagliaio e ricompare con caffè, tè, datteri, pistacchi e dolcetti vari. Nel bagagliaio ha un vero e proprio punto ristoro, altro che fermata all’Autogrill!
La prima tappa del viaggio è Qom la terza città sacra degli Sciiti, dopo Karbala (Iraq), la seconda in Iran dopo Mashad. È sede di un clero fra i più intransigenti del Paese, anima della rivoluzione islamica. Nelle sue Madrase (scuole coraniche) arrivano studenti e studiosi da tutto il mondo sciita. I giovani studiosi si mescolano ai tanti pellegrini che arrivano anch’essi da ogni dove. La provenienza delle donne è riconoscibile dai diversi disegni stampati su ciador rigorosamente neri.
Il santuario è dedicato a Fatemeh, la giovane “senza errore e senza peccato”, sorella dell’ottavo Imam Reza (IX sec.). I visitatori non mussulmani possono accedere solo ai cortili del complesso.
Arrivati davanti al santuario Alì ci consegna a un suo amico Mullah perché ci illustri il luogo sacro. Il giovane religioso ha già preparato per me un ciador. Una giovane, in ciador nero, vedendomi in difficoltà, con gentilezza, mi conduce in un vestibolo per sole donne, mi aiuta a indossarlo, mi perquisisce la borsa e mi conduce nel cortile interno.
Il Mullah ci spiega il susseguirsi nel tempo delle costruzioni, iniziate sotto il regno dei Safavidi (XVI sec.), che costituiscono il complesso e ci spiega che la religione sciita è “amore, concordia, fratellanza” e sembra sottintendere “a differenza di quella sunnita”. Ma intanto penso a quanti sono morti o hanno dovuto lasciare il paese nel periodo della rivoluzione per non aver accettato che questa diventasse solo islamica e che da 10 anni l’apostasia è punita con la pena capitale.
Il viale di entrata in Kashan è costellato, come il viale di ogni città iraniana, dalle gigantografie dei “martiri” della guerra scatenata dall’Iraq contro il paese (1980-1988). Il ricordo del dramma e il dolore procurati dalla guerra sono ancora vivi. Accanto alle foto sventolano le bandiere nere del giorno dell’Ashura, la commemorazione del martirio di Hussein nipote del Profeta Maometto avvenuto a Karbala nel VII secolo. Bandiere nere che non hanno ovviamente alcuna attinenza con le bandiere nere dell’Isis, come tra l’altro una nostra guida ci ha raccontato di aver dovuto spiegare di fronte alla domanda di un turista “ignorante” (o con pregiudizio?).
A Kashan ci accoglie una antica casa tradizionale ristrutturata e trasformata in albergo con il cortile interno arricchito da vasca con fontana e aiuole di fiori, su cui si affacciano le poche stanze. Ci viene servito un pasto leggero e rinfrescante.
La città è famosa per le sue ricche dimore ottocentesche, dove facoltosi mercanti di tappeti vivevano e facevano affari. I loro ingressi danno su vicoli stretti dove hai l’impressione che le case ai lati, una fila ininterrotta di muri color ocra intonacati con paglia impastata ad argilla/fango, siano tutte a un solo piano. Ma scendi pochi gradini, bussi al batacchio sul portoncino d’ingresso – avendo cura di utilizzare quello giusto, perché le due ante hanno batacchi diversi: uno è per le donne l’altro per gli uomini (perché se veniva ad aprire una donna della casa doveva sapere prima se indossare il velo, cioè ha bussato un uomo, o no, cioè ha bussato una donna) – entri ed ecco che la casa/palazzo si distende davanti a te adagiata sul fianco dell’altura che dalla strada scende più in basso. Così dall’esterno non si capisce che in realtà stai entrando in una dimora lussuosa (garantendo privacy e sicurezza) che si snoda in diversi patii ricchi di fontane, vasche e giardini e contornati da edifici su due o tre piani. I patii fungono anche da separazione fra zona invernale ed estiva (d’inverno si viveva nella parte più soleggiata, in estate nell’altra), e da separazione fra la parte dove si trattavano gli affari e quella invece riservata alla famiglia.
Ma Kashan è famosa anche per i suoi giardini. Il Bagh-e Fin è riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. È un esempio del modello di “giardino persiano” che è ripreso anche in altre culture, caratterizzato da alti alberi per proteggere dalla calura estiva le aiuole di fiori, dalla ricchezza di acqua trasportata da piccoli canali e raccolta in fontane, dalla ortogonalità dei canali e dei sentieri, dalle alte mura di protezione. Non manca, al suo interno, un bellissimo hamman una volta pubblico, donne e uomini vi si recavano in giorni separati.
Qui incontriamo Mostafa che insieme alla moglie Fatima dirige l’agenzia che ci ha aiutato ad organizzare il viaggio. In un angolo del giardino ci fermiamo a sorseggiare un tè alle rose servito con dei dolcetti e a chiacchierare seduti sui tipici divani persiani. Mostafa ci dice che Kashan è una città molto tradizionalista. Qom è la città sacra, ma la gente vi arriva da ogni parte e dunque vi convivono più culture, mentre Kashan è fortemente ancorata alle sue tradizioni. Egli stesso è cresciuto in una famiglia numerosa ove ancora la madre era solita scegliere le mogli per i propri figli (forse nello hammam, intanto penso, dove fino a non troppo tempo fa le madri si recavano per vagliare e scegliere le fanciulle da dare in sposa ai figli?). Ma egli è riuscito a rompere questa tradizione e a sposare la “sua” Fatima, la sua compagna di università.
Poi ci invita a cena a casa della sorella, dove potremo incontrare Fatima, “the boss”, come lui la chiama, la bella Fatima che ci accompagnerà via WhatsApp per tutto il viaggio con la sua sollecitudine e la sua indiscussa capacità organizzativa.
In una pasticceria del bazar compriamo dei dolci tipici da offrire e un piccolo giocattolo per Diana, la loro bimba di 8 mesi. Da Bologna ci eravamo portati per loro anche 2 libri di fotografie sulla nostra città, regali molto graditi e che hanno suscitato grande interesse e tante domande.
I pavimenti della casa sono coperti dai bei tappeti dal disegno caratteristico di Kashan, rossi nel soggiorno e blu in cucina (in cucina!), e su uno di essi viene stesa la tovaglia (non ci sono tavoli in quella casa) e servita una cena di numerosi piatti e ricca di sapori, allestita dalla madre e dalla sorella di Mostafa.
Dopo cena si rimane a parlare. Io chiedo della scuola, naturalmente, che è gratuita dalla primaria all’università e per questo il livello di istruzione della popolazione oggi è alto.
Ma si parla anche delle sanzioni; proprio in quei giorni sui giornali campeggiano le foto del loro ministro degli esteri e di quello dell’UE. Confidano che Mrs. Mogherini dia seguito alle promesse di rompere l’embargo bancario. Per loro, per la loro attività, sarebbe fondamentale, ma anche per noi turisti visto che le nostre carte di credito non hanno alcun corso nel paese.
Il rinnovo delle sanzioni da parte americana viene visto come una ingiustizia perpetrata nei loro confronti, che si ritorce anche contro noi europei dato che, come essi ricordano, il posto lasciato vacante dalle aziende europee costrette a ritirarsi è progressivamente preso da quelle cinesi (l’Italia era tra i più importanti partner commerciali). Non mancano caustiche battute su Trump e la sua sanità mentale.
Infine ricordo a Fatima e Mostafa che dobbiamo saldare il nostro conto e porgo loro la busta con il denaro (ovviamente in contanti). Mostafa lo conta e poi trae dalla busta alcune banconote da 100 euro e ce le porge: da quando abbiamo pattuito il costo del viaggio a oggi, spiega, la forte inflazione, ha fatto sì che il costo del viaggio sia cambiato e tutto a nostro vantaggio. Giuseppe e io ci guardiamo con stupore e parte una contrattazione al contrario: Fatima e Mostafa insistono per renderci una parte della somma pattuita mesi fa e noi non la vogliamo. Alla fine si arriva a una mediazione, metà per uno.
Prima di congedarci anche loro ci fanno un regalo: un piccolo tappeto di cotone dai bei colori, tessuto a mano.
Il giorno seguente con la Nissan Patrol di Jamal andiamo nel deserto circostante Kashan. All’inizio della pista, a un posto di blocco, registrano i nostri passaporti e ci riforniscono d’acqua. Ma la macchina di Jamal non funziona bene, va a scatti, perde potenza. Giuseppe e io incrociamo i nostri sguardi perplessi ed entrambi ci consoliamo pensando che siamo registrati e male che vada qualcuno verrà a salvarci. In realtà una fiducia infondata, perché al ritorno in piena notte nessuno controllerà e registrerà la nostra uscita. Per loro potremmo essere ancora lì!
Jamal, nonostante i problemi alla macchina si lancia in ardite evoluzioni fuori pista. Poi ci lascia sotto una grande duna dicendoci di ritrovarci lì dopo una mezz’ora e va “in cerca di un meccanico” (?!). Il deserto del Marenjab non ha certo il fascino del Wadi-Rum giordano o del Sahara, ma quando arrivo in cima alla duna e da lì vedo l’infinito mare di dune perdersi fino all’orizzonte, il cuore fa un piccolo balzo.
Jamal ritorna con l’auto a posto e ci porta al grande lago salato, una enclave all’interno del deserto. È affascinante, sembra essersi fissato in increspature circolari che si estendono all’infinito. Qui vediamo il tramonto e subito siamo avvolti dall’oscurità.
La cena è preparata da Jamal nel vicino caravanserraglio, uno dei tanti sulla via della seta percorsa anche da Marco Polo. Ci viene servita su un tappeto per terra, dove un tempo si sedevano i carovanieri alla fine di una lunga giornata di marcia nel deserto. Accanto a noi siede e mangia una giovane coppia di olandesi, ha dei sacchi a pelo perché si fermerà anche a dormire su quel tappeto dove mangiamo. Quei ragazzi vogliono vedere nella notte le stelle sul cielo del deserto. Noi con un po’ di magone finita la cena li salutiamo per ritornare in albergo. Giuseppe dice loro che siamo troppo vecchi per una notte all’addiaccio (chissà se è vero o se è solo per coprire il rimpianto di non aver portato anche noi i sacchi a pelo). Poi li incontreremo altre volte nel prosieguo del viaggio: e ogni volta “hello friends!”.
Il giorno seguente Alì è di nuovo il nostro autista, grandi saluti e partiamo per Isfahan via Abyaneh, antico villaggio di case di fango impastato con la paglia dove si parla un farsi antico e dove le donne portano un tradizionale foulard bianco con rose rosa.
La strada che porta al villaggio costeggia la centrale nucleare di Natanz, “il sito più famoso negli Stati uniti” ci dice ridendo Alì. Poi a Giuseppe: “ Se vuoi passare una lunga, lunga vacanza in Iran tutta spesata, scatta qualche foto!” e ride divertito. Segue qualche immancabile battuta su Trump e la sua sanità mentale.
Dopo una trasferta attraverso l’altopiano assolato e desertico eccoci a Isfahan, nata nella fertile vallata del fiume Zayandeh, definita da un famoso poeta persiano, “l’altra metà del mondo”.
Il viaggio continua…