di Roberta Merighi
«Cos’è che, del nostro paese, l’ha attirata a venire? Cos’è che l’ha colpita in questi suoi primi giorni in Iran? Ha trovato conferme su quello che si aspettava? Grazie per essere venuti».
La piazza Naqsh-e Jahan (Modello del Mondo) di Isfahan, dove ci troviamo, è bella da togliere il fiato: le botteghe su tutti i lati, le moschee, i palazzi, l’ingresso del bazar, le fontane, le vasche, i prati, i fiori… non sai dove fermare lo sguardo. Ma io sono con il fiato sospeso anche perché all’ingresso della moschea una troupe della televisione ha fermato e sta intervistando Giuseppe. Alla fine mi dirà che, tra le domande in farsi del giornalista tradotte in inglese dalla nostra accompagnatrice e le risposte nel “suo” (come dico io) inglese e riportate in farsi, non è ben sicuro di quel che verrà fuori. Ma è contento lo stesso, l’Iran continua a darci il suo caldo benvenuto!
A Isfahan ci accompagna la bella ed elegante Maryam, che starà con noi per tutto il primo giorno. Per illustrarci la piazza parte dalla sua dimensione (512 metri di lunghezza, 163 metri di larghezza), la seconda al mondo dopo la Tienanmen di Pechino, dice lei. E allora, per contrasto con quella, io noto che la piazza è sì piena di attrattive architettoniche e urbanistiche ma è anche piena di gente. Persone che passano intente alle loro attività, ma anche tantissimi che “si godono” la piazza: crocchi di persone che parlano, intere famigliole che fanno picnic su teli stesi sull’erba dei prati o si gustano un gelato allo zafferano. È forte la sensazione che la gente di Isfahan “viva” la propria grande piazza, soprattutto nelle ore serali, come vedremo poi la sera stessa. Attraversandola più volte durante i nostri giorni a Isfahan incontriamo sempre qualcuno che ci ferma e ci pone le stesse domande della troupe televisiva, curioso di sapere da dove veniamo e se ci piace il suo paese e che cosa di esso in particolare, concludendo con un «Grazie per essere venuti». Ci ringraziano di essere venuti a visitare l’Iran stretto nella morsa dell’embargo, come se pochi turisti fossero testimoni di una volontà diversa da quella delle grandi potenze.
Isfahan è la città forgiata dalla dinastia Safavide (XVI-XVIII sec) che ne fece la Capitale del regno. La costruzione della piazza risale all’inizio del ‘600 e fu voluta dallo Shah Safavide Abbas I detto il Grande che qui fece costruire anche il suo palazzo, palazzo che doveva «destare stupore». Ed effettivamente è stupefacente con i suoi sei piani, con la sua terrazza, impreziosita da colonne in legno e da una fontana in rame, che si affaccia sulla piazza stessa e con la particolarità della sala della musica, la sala anti-stress del sovrano, con le pareti traforate e a onde che restituiscono un suono perfetto. Era il palazzo destinato ad accogliere gli ospiti con i quali il sovrano assisteva dalla terrazza alle partite di polo (questo gioco nasce qui e nella piazza sono ancora visibili i pali delle porte) e ad altri spettacoli.
La dimora è anche impreziosita da dipinti raffiguranti i tanti europei con i quali la casata e la società del tempo avevano relazioni commerciali e diplomatiche.
Di fronte si trova una moschea che era a disposizione solo dello Shah, della sua famiglia e del suo harem. Moschea di contenute dimensioni, dai colori tenui, ma molto elegante con alcuni mosaici color crema che cambiano tonalità col cambiare della luce del giorno.
Ma il punto che per primo attrae lo sguardo nella piazza è l’ingresso della moschea Masjed-e imam, una volta detta dello Shah (Masjed-e Shah). È allineato con la piazza, ma poi, appena entrati si nota che il resto del grande complesso prende una direzione diversa: infatti è orientato verso la Mecca. Questa moschea viene considerata, ed è, un capolavoro.
I suoi iwan (elementi dell’architettura islamica che costituiscono un ambiente coperto ma aperto verso l’esterno, che fanno da portale) sono ricchissimi di mosaici e ceramiche azzurre, raffiguranti motivi ora floreali ora calligrafici ora geometrici. In quello di entrata Maryam ci fa notare alcune imperfezioni nei capitelli, posti simmetricamente ai lati, appositamente create dall’architetto. Con queste egli intendeva esprimere la sua umiltà di fronte ad Allah, l’unico perfetto.
Nel cortile interno si trova la vasca per le abluzioni rituali e intorno quattro iwan che si aprono su altrettanti santuari. La cupola sopra la grande sala della preghiera, ricoperta esternamente di mosaici di ogni tonalità di azzurro e internamente da motivi di cesti di rose dorate, ha una particolarità costruttiva per cui nell’ambiente sottostante si crea un’eco che permette alla voce dell’Iman che conduce la preghiera di essere sentita da tutti nell’ampia sala.
Il mirhab e il minbar sono in marmo finemente lavorato. Il mirhab e il minbar sono gli elementi essenziali di tutte le moschee: il primo è una nicchia posta in direzione della Mecca, ha il pavimento ribassato rispetto alla sala e da essa, più in basso per segno di umiltà, il mullah guida la preghiera; il secondo, posto a fianco, è un pulpito da cui invece vengono tenuti i sermoni, che possono essere di carattere religioso, ma non solo.
Al lato opposto dell’iwan della Moschea si trova l’iwan del Bazar-e Borzog, l’entrata in uno dei più grandi e bei bazar dell’Iran dove si concentra la maggior parte dell’artigianato del paese. E infatti entri e in alcuni suoi vicoli senti i rumori del forgiare dei metalli e dei lavori artistici di fattura di piatti, vassoi, teiere, zuccheriere o altri recipienti per il cibo.
Si articola in una miriade di corridoi con volte ad arco e cupole variamente lavorate. Anch’esso, come quello di Tehran, ha una suddivisione dei vicoli per merci e ha al suo interno moschee, caravanserragli, banche, mentre ai lati si aprono piccole piazzette dove si può sostare in ristoranti tradizionali, sale da tè, gelaterie o dove si ritrovano i bazari per decidere il prezzo delle merci.
E in uno dei questi ristoranti del bazar ci fermiamo con Maryam che ci fa conoscere due piatti tipici della cucina persiana: il zeresk polo ba margh, pollo servito con un timballo di riso cosparso di zafferano, e il dizi, uno stufato di carne di montone con verdure servito nel suo brodo che una volta in tavola viene tolto dal coccio, pestato e amalgamato con le verdure con un arnese apposito; può essere mangiato, bagnato col suo brodo, con pane o riso. Vi assicuro il tutto è molto gustoso.
Gli avanzi del pranzo – i piatti sono sempre molto abbondanti – sono raccolti da Maryam che li consegna poi a un amico per la distribuzione a chi ne ha bisogno.
Non lontano dalla piazza si trova il palazzo Chehel Sotun o delle 40 colonne, che in realtà sono 20, le altre si ricavano dalla loro immagine riflessa nell’ampia vasca situata di fronte nel bellissimo giardino persiano. Le colonne lignee sostengono un soffitto a cassettoni che copre il porticato d’ingresso al palazzo. Ma il numero, che, ci ricorda Maryam, ricorre sia in tanti racconti dell’oriente (tutti conosciamo i 40 ladroni) o nelle religioni (i 40 giorni di digiuno nel deserto dei “profeti” Gesù e Maometto) è in persiano sinonimo di “molti”.
Assomiglia più a un padiglione che a un vero e proprio palazzo, a testimonianza della persistenza di un sentimento nomade di popolo e regnanti.
La Sala del Trono è arricchita da affreschi di scene di battaglie combattute, vinte o perse (in uno i persiani vengono raffigurati sconfitti in battaglia dai loro storici nemici, gli Ottomani, ma qui si vuol fare risaltare la sconfitta dei “giusti” ad opera di coloro che hanno solo una superiorità di forze) e di scene di vita di corte, incontri con regnanti stranieri e ambasciatori. Maryam magnifica questa arte pittorica sottolineando, orgogliosamente, che non ha nulla da invidiare a quella contemporanea europea.
E questo orgoglio verso la cultura e la storia iraniana lo sentiremo spesso vibrare.
Talvolta solo per sottolineare la storia bimillenaria del paese, i suoi periodi storici luminosi per arte e cultura, altre volte per sottolineare che il mondo occidentale, così autoreferenziale, non sempre è aperto a capire e porre le differenze culturali su un piano di parità, o addirittura come sottintesa critica alla situazione politica attuale.
E qui Maryam ci lascia, continueremo a goderci Isfahan da soli.
La sera andiamo a visitare alcuni dei numerosi ponti sul fiume Zayandeh. Ma il fiume non c’è più, non scorre più impetuoso sotto i ponti dalle ampie arcate che fungevano anche da dighe, non rinfresca più la città e i suoi abitanti nelle giornate estive. La scarsità d’acqua degli ultimi anni ha suggerito di chiuderlo più a monte con una diga e di approvvigionare in primis le attività agricole. Ma ugualmente i ponti, che attraversano un alveo asciutto, fatto di ciottoli, rimangono per gli abitanti punto di ritrovo serale, soprattutto di gruppi di giovani, e intatta rimane la magia della loro presenza scenica con l’illuminazione che fa risaltare il colore caldo della pietra.
Al di là del fiume, attraversato a piedi il ponte delle 33 arcate, si giunge nel quartiere denominato Nuova Jolfa dove vive, ancor oggi, la comunità di quegli armeni che lo Shah Abbas I incentivò, non senza qualche coercizione, a seguirlo a Isfahan, promettendo loro il mantenimento della loro lingua, religione e delle loro tradizioni. Per fare grande il suo regno aveva bisogno delle loro competenze di artigiani e di mercanti.
Da allora la comunità si è ingrandita, risultando, oggi, la più grande comunità non mussulmana del paese, cui è stato accordata anche una rappresentanza parlamentare.
Nel museo, accanto alla cattedrale cristiano-ortodossa, lo struggente ricordo del genocidio del popolo armeno perpetrato dai Turchi nel 1915.
Il giorno seguente percorriamo i quasi due chilometri della parte più vecchia del bazar, quella più frequentato dalla gente di Isfahan, per recarci alla sontuosa Moschea del Venerdì la Masjed-e Jameh. Ma prima vogliamo fermarci in un piccolo popolare ristorante rinomato per il beryani piatto tipico a base di polmone e carne di montone, grigliati e macinati e serviti su una sorta di pita. Ma non è facile trovare il posto in quel dedalo di stradine. E infatti entriamo nel ristorante sbagliato e mentre cerchiamo posto una avventrice col ciador capisce il nostro errore (ma da che cosa?!) e guardandoci scuote la testa, si alza dal tavolo, ci fa segno di seguirla e ci accompagna nel ristorante giusto in un vicolo vicino. Giuseppe ed io sorridiamo per aver fatto la figura dei turisti imbranati, ma siamo colpiti dall’intuito e dalla gentilezza di quella signora. Anche questo è un segno dell’empatia della gente.
Dopo aver gustato il beryani e bevuto un casalingo dugh, una bevanda a base di yogurt e acqua, affrontiamo la visita del complesso della Moschea del Venerdì.
La moschea è un concentrato di storia persiana (sorge su un vecchio tempio zoroastriano) e della sua architettura islamica. Iniziata sotto i Selgiuchidi nell’XI secolo, continuata in alcune sue parti durante il periodo dei mongoli (XIII-XIV sec.) e poi dai Safavidi (XVI sec.), risente nelle sue varie componenti dei diversi stili, tutti però al massimo della loro espressione. Nel cortile si aprono quattro iwan – e anche qui non sai dove fermare lo sguardo tanto il luogo ti rapisce per la raffinata bellezza – che danno su diverse sale di preghiera alcune imponenti arricchite da magnifici tappeti altre più antiche, del periodo selgiuchide, arricchite invece da colonne in mattoni con mirhab e minbar in stucco con preziosi motivi floreali e iscrizioni coraniche. Una di queste sale è sormontata da una cupola in mattoni, chiamata di Taj al-Molk (dal nome di un consigliere della madre dello Shah), famosa per le sue proporzioni matematiche perfette in virtù delle quali è sopravvissuta a tutti i terremoti che si sono succeduti nel tempo. Al centro del cortile si trova la fontana per le abluzioni sul modello di quella della Mecca: in passato chi si apprestava ad andarvi in pellegrinaggio veniva qui per apprendere il rituale corretto intorno alla fontana.
Sulla via del ritorno ci soffermiamo a curiosare nel bazar. Davanti ad uno dei tanti negozi di tappeti ci abborda un giovane che, in italiano, ci invita a entrare per conoscere tale tipo di artigianato che peraltro è uno dei punti di forza dell’economia iraniana.
«Solo per vedere e per conoscere» dice, e non senza qualche resistenza, entriamo. «Solo per vedere e per conoscere» ribadisco. Così fra un tè alle rose, un tè al cardamomo, un succo allo zafferano, Asghar, che ha imparato l’italiano da un’amica iraniana che vive a Imola (!), ci illustra la sua bella e ricca mercanzia. Ha molti tappeti tessuti dalle donne Qashqai la popolazione nomade la cui transumanza avviene ancora oggi tra i pascoli delle montagne a nord di Shiraz e le pianure meridionali vicine al Golfo Persico. «Un popolo forte e fiero» dice Ashgar lodando la lavorazione dei tappeti. E infatti ha dovuto combattere a lungo sotto i Pahlavi che nella politica di modernizzazione del paese hanno usato ogni mezzo per costringerlo alla sedentarietà, e anche sotto l’attuale regime, per difendere il suo modo di vivere e i suoi codici di comportamento. Poi passa ai tappeti tessuti a Qom e qui arriva “il” tappeto e Asghar, che deve aver visto il lieve alzarsi del mio sopracciglio, vi si sofferma decantandomi la fine lavorazione, etc…il superbo disegno, etc…il tempo che occorre per farlo, etc…e che è un «vero affare» perché in Italia un tappeto così lo pagheremmo il triplo etc…etc…Noi alle prese con un “mercante” persiano, potete immaginare…
Infatti si arriva alla contrattazione, come da prassi. Ma a un certo punto ci fermiamo e diciamo che non possiamo comprare il tappeto, perché in questo caso non avremmo più il denaro in contanti per continuare il viaggio. «No problem», dice Asghar «basta pagare su una banca di Dubai» e subito esibisce un pos collegato con l’Emirato. Alla faccia dell’embargo! Così, con l’americana American Express, ironia della sorte, facciamo la transazione. Transazione che compare in una moneta a noi sconosciuta, la valuta degli Emirati, e di conseguenza anche con una cifra completamente diversa da quella pattuita in euro. «Tutto OK», ci tranquillizza Asghar facendoci scorrere sotto gli occhi le schermate del suo smartphone che riportano le quotazioni del cambio. Una successione di schermate scritte in farsi che si sovrappongono a quelle in inglese! Insomma, d’istinto alla fine ci fidiamo del nostro “amico mercante”, ma fino a che non siamo riusciti a controllare, qualche giorno dopo, l’addebito reale in euro sul nostro conto, siamo stati con un po’ d’inquietudine.
Ma era la cifra pattuita, esatta al centesimo!
Tutto questo mentre il tappeto veniva impacchettato e posto in una bella borsa dai disegni persiani, che ci accompagnerà per tutto il resto del viaggio!
Il giorno dopo, con un po’ di tristezza lasciamo la bella Isfahan. Percorriamo un altro tratto di altopiano desertico costeggiato in lontananza dalle alte montagne che nei periodi invernali si coprono di neve e alimentano d’acqua il paese. Nell’antichità essa veniva convogliata attraverso i qanat (canali sotterranei) nelle grandi cisterne di mattoni di cui erano dotate tutte le città, ancora esistenti, seppure non più in funzione, e visitabili.
Così visitando, strada facendo, una castello medievale, un caravanserraglio, una antica piccionaia, dove i contadini raccoglievano il guano per concimare i campi, arriviamo a Yazd, la città dei due deserti.
La scoperta di un’altra parte dell’affascinante storia dell’Iran ci attende.
Il viaggio continua…