UN FIORE NEL DESERTO – STORIA DI UN PROGETTO DI AUTO-SOSTENIBILITÀ IN RAJASTHAN, INDIA

di Marta Franceschini

Ho visitato Madrasa Hanfiya nel Marzo 2018. Avevo sentito parlare di questa scuola e del suo progetto rivoluzionario di libera-educazione, e volevo vedere coi miei occhi di cosa si trattava.

Otto ore di macchina, su strade per lo più sconnesse, per arrivare nel distretto di Barmer, nel mezzo del deserto del Rajasthan. In pratica, al centro del nulla. Chilometri e chilometri di secca terra d’arbusti, per lo più coltivata a cumino, e spezzata da pochi alberi bassi e temerari come guerrieri dalle mani nude.

La scuola è nata qui grazie alla donazione di un terreno, sul quale sorgevano un paio di capanne. Ma la scelta del territorio ha voluto anche rispondere a esigenze geografiche particolari: l’area infatti è il cuore della povertà rajasthana, dove popolazioni rurali e abitanti di sperduti villaggi sopravvivono a stento da generazioni. Tra questi, le comunità musulmane sono da secoli le più svantaggiate, vuoi perché la religione islamica ha accolto masse di convertiti provenienti dalle caste più basse della società indù, compresi gli ultimi degli ultimi, ovvero i cosiddetti fuori-casta; e vuoi, per le politiche non sempre limpidissime che si sono susseguite dall’Indipendenza (1947) in poi nei confronti della minoranza musulmana.

Fatto sta che ad oggi la percentuale di analfabetismo femminile nelle comunità musulmane del Rajasthan e dell’adiacente stato del Gujarat, è tra le più alte e drammatiche del mondo: una bambina su due non ha accesso all’istruzione.
Un’emergenza di fronte alla quale Zeinab Banu, giovane laureata in Letteratura Urdu presso la Gujarat University, non ha voluto restare indifferente. Che l’educazione delle figlie femmine fosse un lusso che i poveri della zona non si potevano permettere, era fin troppo evidente. Ma Zeinab ha affrontato il problema con un’intuizione geniale: se l’offerta di scolarizzazione fosse stata non solo gratuita, ma avesse anche dato loro la possibilità concreta di avere una bocca in meno da sfamare per otto anni di fila, forse sarebbero stati ben felici di autorizzarla. E così infatti è stato.

Il 18 novembre 2011 è stata fondata la scuola Madrasa Hanfiya, che offriva vitto, alloggio ed educazione gratuita a bambine povere musulmane. Il primo anno erano 50 in tutto, oggi sono 130. 130 future donne a cui viene data la possibilità di istruirsi e di vivere per ben otto anni in un ambiente sano e protetto, di poter crescere insomma al riparo da quei pericoli e da quelle violenze di cui le bambine di tutta l’India sono purtroppo le principali vittime quotidiane. Dunque una scuola che non è solo luogo di istruzione, ma anche garanzia del diritto a un’infanzia priva di traumi, sfruttamento e privazioni.

Proprio questo volevo verificare con i miei occhi, toccare con mano le condizioni di vita di queste bambine per capire se il progetto, bellissimo sulla carta, lo fosse anche nella realtà.

Sapevo dai numerosi articoli che avevo letto sulla scuola che avrei trovato un esempio encomiabile di pratica educativa, ma non mi aspettavo che la mia visita mi avrebbe colpito così nel profondo, tanto da diventare l’obbiettivo principale dei miei progetti futuri. Varcata la soglia della Madrasa mi sono infatti ritrovata in una vera e propria oasi umanitaria.

La serenità e l’armonia con cui tutti gli individui coinvolti nel progetto, adulti e minori, interagiscono tra di loro mi ha semplicemente conquistata. Dopo aver frequentato per anni aule scolastiche italiane come consulente e come insegnante, non ho potuto fare a meno di metterle a confronto con la realtà che avevo sotto gli occhi.

L’assoluta disciplina, l’atmosfera rilassata con cui ogni attività viene svolta, il sorriso sempre pronto, l’allegria ma anche il senso del dovere, il rispetto reciproco, la gentilezza, la responsabilità, il silenzio… tutto sembra svolgersi con la naturalezza delle cose buone e giuste. In dieci giorni di permanenza non ho assistito ad un singolo momento di tensione, non ho visto una lacrima, un capriccio, un dispetto, una crisi. Le bambine più grandi si occupano amorevolmente di quelle più piccole, e ognuno svolge il proprio compito con gioia e competenza. I due insegnanti esterni, che ogni giorno arrivano da decine di chilometri di distanza, per stipendi che qui in occidente non ci farebbero nemmeno alzare la testa, parlano delle bambine con occhi umidi di commozione, e spesso si fermano ben oltre l’orario di lezione. Le studentesse, che vanno dai 5 anni ai 15, non possiedono un singolo giocattolo, non hanno né televisori né cellulari, hanno un solo vestito a testa, un paio di sandali, una coperta, e un piccolo baule dove tenere i loro eventuali oggetti personali. Dormono per terra, sdraiate su sottili trapunte di cotone. Provvedono da sole alla pulizia degli spazi comuni, dei bagni, delle aule e alla lavanderia dei propri indumenti.

Eppure sono felici, così tanto felici che se si ammalano durante l’anno scolastico scongiurano la direttrice di non mandarle a casa, e si fingonoguarite anche prima del tempo pur di non essere allontanate. Nel grande cortile della scuola giocano con la sabbia, coi fiori, coi sassi. Si rincorrono, si pettinano a vicenda, si raccontano segreti tenendosi per mano. E la sera, si riuniscono sui tetti della scuola per osservare in silenzio il tramonto, unico spettacolo gratuito a loro disposizione.

Questa è Madrasa Hanfiya. Da sette anni a questa parte vive di donazioni, a riprova che i miracoli sono contagiosi e che il bene attira la bontà. InshAllah.

Durante la mia permanenza ho avuto modo di scoprire che il costo di un anno scolastico, compreso il mantenimento delle 130 studentesse, gli stipendi degli insegnanti e del personale, gli approvvigionamenti, le penne, i quaderni, i libri, le bollette e i trasporti non supera i 20.000 €.

In altre parole, una cifra ridicola, che qui da noi è sufficiente a malapena per mantenere un bambino solo. Allora, mi è venuta un’idea…

La scuola, che dista dieci chilometri dal villaggio più vicino, è circondata da una decina di capanne abitate da una comunità semi-tribale, i cui membri sono tutti imparentati o coinvolti con la gestione della struttura scolastica. Di fatto, costituiscono un’unica comunità, che condivide con la scuola le tante difficoltà e problematiche legate al territorio desertico sul quale vivono. È una forma di solidarietà antica che spinge gli esseri umani che si trovano in situazioni impervie ad aiutarsi tra di loro. È un meraviglioso istinto archetipico di sopravvivenza, qualcosa che noi in occidente abbiamo completamente perduto.

Il forzato isolamento del deserto fa sì inoltre che, per far fronte alle numerose e mutevoli esigenze del quotidiano, si sviluppino fortemente, all’interno di queste comunità, creatività e fantasia, producendo talenti artigianali di grande valore e raffinatezza. Durante i dieci giorni passati a stretto contatto con loro, ho avuto la fortuna di poter osservare da vicino i prodotti della loro arte, e ne sono rimasta ammaliata. I finissimi ricami degli abiti tradizionali, le tecniche di trapunture delle coperte, le decorazioni, i cesti, gli intarsi: una produzione di arte semplice, della cui bellezza e del cui valore gli stessi autori e autrici restano inconsapevoli.

Per questo ho pensato di aprire un laboratorio artigianale all’interno della scuola, dove coltivare questi talenti, salvaguardare tecniche antiche e preziose di artigianato, creare una produzione rivolta non solo al mercato indiano ma anche all’esportazione, e commercializzarla con l’obbiettivo di rendere la scuola autonoma economicamente.

Insomma, una piccola attività artigianale capace di fatturare almeno 20.000 € l’anno. Un progetto dunque di auto-sostenibilità, che miri a liberare il futuro della Madrasa dall’incognita delle donazioni, e le permetta di stare in piedi da sola. Per usare una metafora: invece del pesce, regalare una canna da pesca a chi ha fame.

La creazione del laboratorio, infine, potrebbe fornire alle studentesse, oltre all’istruzione di base, l’occasione per acquisire anche un mestiere, e uscire dunque dalla scuola con una opportunità in più per il proprio futuro.

La mia idea è stata accolta con appassionato entusiasmo da tutti i componenti della comunità: e questo è tutto quello di cui avevo bisogno per decidere di metterla in pratica, e dedicare a questo obbiettivo i prossimi anni della mia vita.

È nato così il progetto UN FIORE NEL DESERTO, per provare che a volte l’amore e la bellezza possono sbocciare dall’arido nulla, che cose piccole e vulnerabili come un fiore, possiedono in realtà forza e coraggio immensi, e che regalare otto anni di pace e serenità a un bambino è la più bella ricompensa che si possa desiderare per il proprio lavoro. Ma soprattutto, per rendere economicamente indipendente la rivoluzione educativa della Madrasa di Zeinab Banu, ed essere così certa che essa possa sopravvivere negli anni.

Il progetto partirà da zero il prossimo settembre. Primo compito: creazione di un campionario da sottoporre agli importatori internazionali del mercato equo e solidale.

CHIUNQUE VOGLIA SOSTENERCI È PREGATO DI FARLO ATTRAVERSO IL NOSTRO SITO WEB:

www.madrasahanfiya.com

accoglieremo a braccia aperte ogni tipo di collaborazione: idee, volontariato, donazioni

GRAZIE DI CUORE!!!

2 thoughts on “UN FIORE NEL DESERTO – STORIA DI UN PROGETTO DI AUTO-SOSTENIBILITÀ IN RAJASTHAN, INDIA

  1. « Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto” G.K. Chesterton

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