
Edito da Einaudi, 2014, pp 454
Al giogo delle parole di un folle demiurgo, animale feroce tenuto al lazzo, sta il protagonista indiscusso e silenzioso di questo romanzo: il tempo. Fiera mansueta ma inarrestabile, ha scortato il narratore per tutta la vita. Quando era piccolo infatti Hayri Irdal, sul pianerottolo di casa, osservava sovente una pendola vecchia, rotta, che non mancava di suonare nei momenti più assurdi: spesso in concomitanza con la vita. Allo stesso modo osservava scorrere la sua esistenza, senza capirla. Vittima che si piega al vento battente del perdurare, questo giovane confuso, discendente di una stirpe di persone destinate a mancare agli impegni presi, ha davvero incontrato i personaggi più bizzarri: vecchi nobili dai mille possedimenti che allo sfaldarsi dell’impero ottomano svaniscono lentamente; folli santoni in contatto con entità mistiche; farmacisti in cerca del segreto alchemico. Ogni pagina scorre nei fiumi dell’allegoria. Sarà Halit il regolatore, come si scopre da subito, a far prendere agli eventi un corso diverso, decidendo di fondare l’Istituto per la regolazione degli orologi, una grande macchina i cui ingranaggi sono legati alla buffa inutilità della burocrazia. Santificata dal ritrovamento fasullo dell’opera dell’antico e saggio Ahmet il tempistico, la nuova organizzazione si affermerà nella Turchia senza nome e senza tempo che fa da sfondo a questo racconto che dopo molti decenni dalla pubblicazione è stato finalmente tradotto in italiano. Cosa è reale? Cosa non lo è? Il concetto forse è da rivalutare.
Francesco Colombrita