MERCOLEDÌ 27 GENNAIO: GIORNATA DELLA MEMORIA.

di Angelo Errani

Citazione da Primo Levi:

«Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi debbono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Haftling 174517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido, pulito, ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare. Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò.

Da quel giorno io ho pensato a Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo, come riempisse il suo tempo, all’infuori della polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una curiosità dell’anima umana. Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario fra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.

Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: questo qualcosa davanti a me appartiene ad un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile».

(Levi P., Se questo è un uomo, 1958, Torino, Einaudi.)

Primo Levi ha cercato di aiutarci a capire: ogni vita manteneva un valore solo per quanto e fino a quando poteva tradursi in forza produttiva. Ma abbiamo capito veramente?

Citazioni dall’attualità:

«Per quanto ci addolori ogni singola vittima del COVID, dobbiamo tener conto di questo dato: solo ieri, fra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani, persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese».

(Tweet di Giovanni Toti, Presidente della Regione Liguria, 01/11/2021)

«Un extracomunitario sposato con quattro figli può incassare dalla Provincia Autonoma di Trento fino a 2000 euro al mese. Tutto questo senza lavorare».

(Manifesto esposto sulla vetrina di una sede della Lega a Pergine, Trento)

La vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti, chiede che venga inserito il valore del Pil regionale tra i criteri per la ripartizione dei vaccini anti COVID: «Assegnare le dosi alle regioni secondo la capacità produttiva».

(Notizia riportata dai quotidiani il 19/01/2021)

(La richiesta contraddice l’Art.2 della Costituzione della Repubblica Italiana il quale stabilisce che ci sono dei diritti, quelli di cui un uomo gode in quanto uomo, indipendentemente da dove vive e dalla appartenenza e condizione sociale, che in nessun caso possono essere negati da persone o istituzioni. Nda)

Sono solo parole? Il fatto che le parole producano degli effetti sul piano sociale è stato ampiamente dimostrato da linguisti, psicologi e filosofi del linguaggio. Le parole sono dunque anche fatti. Esse infatti segnalano i riferimenti culturali che, incontrando un contesto di sofferenza sociale e di annebbiamento della memoria, possono tradursi in comportamenti violenti.

Stiamo assistendo a un colpo di coda del passato, oppure, pur non trascurando la grande differenza che intercorre fra le parole e la loro traduzione in azioni concrete, dobbiamo allertarci e riflettere seriamente su ciò di cui ci avvertì Primo Levi:

«È accaduto, quindi può accadere di nuovo.»?

(Levi P., I sommersi e i salvati, 1985, Torino, Einaudi.)

Se pensiamo che il razzismo, l’intolleranza, la convinzione che liberarsi dei soggetti non produttivi costituisca un’operazione ragionevole, siano residui del passato non ci resta che attenderne il superamento. Se invece riconosciamo i segni di una storia che ci appartiene, occorrerà doverosamente pre-occuparcene, ricordando che, come affermò al Processo di Norimberga la psichiatra Alice Ricciardi Von Platten:

«Il male arriva come un piccolo nodo: quando te ne accorgi sei già malato».

La storia è piena di guerre e di massacri, ma mai, in nessuna epoca e luogo, come nella modernità, questi hanno assunto la caratterizzazione della eliminazione, ideata e realizzata con sistematica scientificità, dei soggetti più deboli, ritenuti inutili e un peso sulle spalle di chi è in salute e che lavora e produce anche per loro. È nella modernità e nella civilissima Europa che si realizzò l’orrore del fascismo e del nazismo. È nel XX° secolo che, secondo i calcoli dello psicologo statunitense Robert Stemberg, sono stati uccisi fra i 100 e i 160 milioni di civili e, in quest’esordio di XXI° secolo, non mi sembra che le cose siano migliorate.

(Bauman Z., Modernità e Olocausto, 1989, Bologna, Il Mulino.)

A partire dal 1933, il governo nazista diede inizio alla sterilizzazione forzata di centinaia di migliaia di cittadini e dal 1939 avviò il programma di Rimozione forzata della vita senza valore, legittimata da insigni medici e giuristi. Fra il 1939 e il 1942 furono assassinati 300.000 bambini e adulti disabili. Il loro mantenimento, calcolato in 3,50 reichsmark al giorno per ogni individuo, pagati con le tasse delle persone sane e produttive, costituiva un lusso da tagliare. Le ragioni sono evidenti, si tratta di razionalissime valutazioni economiche dei costi e dei benefici: ausmerzen (prima di marzo) cioè il trasferimento alla società degli umani del costume contadino di sopprimere gli animali più deboli che avrebbero rallentato i più forti nel trasferimento verso i pascoli di alta montagna.

L’assassinio dei disabili costituì la prova generale che avviò lo sterminio di milioni di cittadini ebrei, omosessuali, zingari e oppositori politici ad Auschwitz, Dachau, Treblinka.

Ma come è possibile che masse di persone normali si prestino a simili violenze? L’impegno di ricerca di quel confine attraverso il quale le persone normali diventano artefici o complici, molto spesso senza consapevolezza di esserlo e senza rimorsi, si è sviluppato su più piani.

Una pista di ricerca, ha avuto come riferimento gli studi sulla «personalità autoritaria» di Theodor Adorno. Questi studiosi ritennero che non sarebbero importanti le influenze sociali, essendo decisiva la predisposizione individuale.

Una seconda pista di ricerca ha assunto come riferimento il «condizionamento comportamentale», cioè la collocazione sociale e le condizioni socioeconomiche che spingono soggetti normali a partecipare a gesta malvagie. Tali ricerche hanno maturato la convinzione che esistano delle condizioni che promuovono i comportamenti, comportamenti che, in condizioni differenti, rimarrebbero inespressi.

Hanna Arendt si oppone alla riduzione dei comportamenti sociali alla psiche individuale e/o al solo condizionamento, che risulterebbe deresponsabilizzante. È la costruzione di uno sfondo culturale che legittimi la violenza l’anestetico che può far sentire come giusti i comportamenti più indegni. La studiosa documenta che i protagonisti dei crimini più efferati non erano dei sadici, ma normali cittadini e spesso bravi padri di famiglia. Il processo svoltosi a Gerusalemme offrì infatti l’opportunità di vedere che Eichmann non era un mostro, ma un individuo spaventosamente normale.

(Arendt H. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1964, Milano, Feltrinelli)

Più recentemente, Philip Zimbardo, ha dimostrato che ragazzi americani del tutto comuni, una volta arrivati in quella terra di nessuno, come diventò l’Iraq al tempo della guerra del Golfo, investiti dell’impegno di custodia di prigionieri rappresentati come appartenenti a una qualità inferiore di umanità, si trasformarono in spietati aguzzini. Lo studioso, in seguito, fu costretto a sospendere una ricerca, promossa all’università di Stanford, perché soggetti scelti a caso, investiti del ruolo di carcerieri che dovevano infliggere scariche elettriche di intensità crescente ad altri nel ruolo di carcerati, essendo l’esperimento giustificato con finalità scientifiche, si sentirono legittimati a infierire senza alcuna preoccupazione.

Dunque, una volta che è stato realizzato uno sfondo culturale che separa pensieri e azioni dalla morale, il male si autoalimenta, si rinforza e i soggetti diventano gradualmente indifferenti verso le sofferenze altrui, fino addirittura a sviluppare un vero e proprio fastidio nei confronti delle vittime.

Come sarebbe confortevole e sicuro il mondo se a perpetrare azioni mostruose fossero soltanto dei sadici o degli esaltati. Ma, se sono persone normali – cioè persone come tutti noi – a essere capaci, in presenza di determinate condizioni, di agire in modo violento, allora abbiamo valide ragioni di preoccupazione.

Abbiamo dunque il dovere di occuparci di noi stessi, non trascurando di educarci ed educare a scoprire e riscoprire nella quotidianità l’appartenenza di tutti alla stessa umanità e l’appartenenza dell’umanità alla natura. Educarci vuol dire anche curare la memoria di questa appartenenza. C’è chi, come Liliana Segre, per aiutarci, ci fa dono della sua storia. È una storia che percorre tutti i gradi di una progressiva disumanizzazione che, se non giriamo lo sguardo da un’altra parte, possiamo riconoscere nella quotidianità di tanti nostri fratelli di tanti paesi del mondo, ma anche dietro l’angolo di casa. È una storia che ci rammenta che, disumanizzando, diventiamo disumani.

«Sono stata una bambina espulsa dalla scuola, sono stata una clandestina con documenti falsi, sono stata una richiedente asilo poi respinta dalla Svizzera. Poi sono stata carcerata, ho conosciuto la deportazione e nella deportazione sono stata operaia schiava».

(Segre L., Il mare nero dell’indifferenza, a cura di G. Civati, 2019, Gallarate, People.)

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