UNA GIUSTIZIA DIVERSA E POSSIBILE

Di Francesco Colombrita

Se a un gruppo disomogeneo di dieci persone chiedessimo che idea hanno della giustizia, che cosa sia insomma, sarebbe facile imbattersi in dieci risposte diverse. E probabilmente anche in un acceso dibattito. Il che dovrebbe impressionare, considerato che il potere giudiziario – e cioè l’esercizio della giustizia -, corre parallelo a quello legislativo ed esecutivo in ogni stato di diritto. Per cui si potrebbe osare dicendo che non esiste una narrazione condivisa di uno dei tre poteri cardine dell’ordinamento di uno stato moderno. Una cosa non da poco. 

Che il tema sia spinoso e complesso – ma sentito – è testimoniato se non altro dai movimenti dell’opinione pubblica ogni volta che si affronta il tema di una riforma dell’ordinamento giudiziario. Parere comune è che non funzioni, ma in che direzione andare? Prendendo solo il caso italiano è da notare l’ingresso in parlamento di un movimento che sull’esercizio della giustizia ha fatto battaglia; ma anche la riforma della prescrizione della medesima forza politica, e i vari referendum che recentemente sono stati approvati dalla Corte Costituzionale. 

Quali che siano le posizioni espresse, buona parte del dibattito si concentra sempre sull’individuo, sia esso il reo o la vittima, e mai sull’aspetto sociale. Qualcuno direbbe che l’humus all’interno del quale siamo abituati a muoverci su queste tematiche sia quello di una diffusa percezione dell’esercizio della giustizia come retributiva. Lo Stato, detenendone le prerogative, commisura una pena al reo che in un qualche modo sia proporzionata al danno subito dalla vittima. Ma questo atteggiamento in effetti non si discosta, se non nell’esercizio di una civiltà più moderna, da quello che ha animato la stesura delle leggi del taglione. Vi è una radicata percezione del crimine come offesa – agita secondo un male quasi ontologico – che vada appunto punita. Come osserva Paola Ziccone in Verso Ninive:

«Vi è un equivoco sulla finalità della pena, […] viene identificata con l’afflizione di una sofferenza che in sé racchiude la possibilità che questo serva a ristabilire un equilibrio nel cosmo, quasi azzerando il male commesso. Ma non è così. Il passato precedente al male fatto non torna, le ferite non si rimarginano miracolosamente comminando lo stesso male subito. Il fine della pena non può essere comminare un male per arginare il male».

Una percezione come quella qui delineata, e che è con ogni probabilità quella più largamente diffusa, non ci allontana più di tanto da quella civiltà della vendetta – per parafrasare Benedict e Dodds – dalla quale la modernità avrebbe dovuto distinguersi. Pure nel mondo antico la vendetta era poi solo una delle forme di espiazione previste, poiché a ben osservare l’ufficio del sacrificio espletava lo stesso scopo, ancorché rivolto al perdono divino e non personale. 

Occorre notare anche che la divisione manichea tra vittime e colpevoli produce un isolamento dei secondi rispetto ai primi, ma anche della società tutta rispetto ai secondi. Uno degli effetti di questo atteggiamento è quello dell’impossibilità di sanare quella frattura sociale che è prodotta dal reato: si reclude il male altrove, e la ferita rimane. Anche laddove gli ordinamenti, come il nostro, prevedono un fine rieducativo della pena utile proprio al reinserimento nella società si ha difficoltà a disarticolare questo meccanismo. 

Un approccio al tema che tiene conto di tali aspetti, e anzi si muove proprio a partire da queste criticità, è quello della giustizia riparativa. Il modello ha alla base una risignificazione del sistema di percezione del reato che non dovrebbe essere un fatto individuale, ma sociale. Un qualcosa di cui farsi carico in termini pedagogici come comunità, al fine di risanare non solo la ferita individuale, ma la frattura del patto sociale che scaturisce dall’offesa. Solo in quest’ottica si realizza una presa in carico collettiva del tema, con  prospettive tutt’altro che banali. 

È quindi possibile, se non necessario, ribaltare un sistema di pensiero al fine – forse – di incontrare nella pratica un concretizzarsi dell’unione che fu di Dike e Eiréne (cioè Giustizia e Pace)? Legame, il loro, che sta alla base di altrettanta scuola di pensiero, nonché di una mediazione in campo artistico iconografico di grande diffusione. 

Di questi temi parleremo domenica 6 marzo alle ore 20, in un evento organizzato da Metro-Polis, all’interno di un dialogo tra Paola Ziccone e Alessio Costarelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.